Questo testo - qui suddiviso in tre parti - è stato presentato a il 28. 05. 2016 alla SIPRe (Milano).
Molto tempo fa, quando provavo a smettere di essere bambino senza riuscire a essere giàragazzo, mi capitòdi fare una scoperta, che aggiunse uno spicciolo consistente al salvadenaio della mia autostima. Dico scoperta per dire. Erodoto e Tucidide mi avevano preceduto di qualche anno! Ci arrivai da solo, però. Per me, quindi, fu una “scoperta”. Ricordate il libro di storia della prima media? Sfogliatelo mentalmente… Sumeri, Assiri, Babilonesi, Egizi, Ittiti, Cretesi, Micenei…Occupavano in fila, uno dopo l’altro, il palcoscenico della storia. In ginnasio…da capo! Stesso ordine, ma più confuso perchési aggiungevano Kurriti, Mitanni, Cassiti, Elamiti, Amorrei, Ebrei …Fu la battaglia di Kadesh a farmici pensare. Ramses combatteva con gli Ittiti, dunque … si mischiavano in guerre, traffici e contese! Chi? Con chi? Quando? Ecco la scoperta. Tirai su un foglio abbastanza grande una linea continua. A sinistra, sotto, scrissi 3000 A.C. e sopra, Sumeri, più sopra Egizi, poi, procedendo verso destra, aggiungevo le date di ingresso e di uscita degli assiri, dei babilonesi e delle altre culture man mano che la linea del tempo procedeva. Linee continue parallele segnavano la persistenza nel tempo, linee verticali indicavano i contatti, pacifici e non, tra popoli e culture. La sensazione fu di aver fatto chiarezza in tutto quel disordine perché potevo capire, con un colpo d’occhio, chi, con chi, quando e dove si potevano o dovevano mischiare. Seppi di aver fatto una cosa intelligente quando il professore mi regalòun 8 del tutto inatteso - 8, a quei tempi, era il massimo; 9 lo avevano dato, forse, a Dante e a Galileo; 10 era riservato a Dio! - e mi mise in mano un libro dalla copertina gialla sulla guerra tra Atene e Siracusa, che aveva appena letto. Quel libro mi consentì un’altra scoperta: per la prima volta mi resi conto che andare per fratte, inseguendo la curiosità, èmeglio che seguire il sentiero sicuro del manuale. Da allora mi ècapitato spesso di dirmi: “qui bisogna tirare la linea!”.
A riguardo della psicoanalisi mi capitò, la prima volta, sul finire degli anni settanta. Credo sapete di quello sparuto gruppetto - in tutto non facevamo neanche i dodici apostoli, - che si riuniva a Via Casilina. Il giovedì si tenevano le lezioni. Il martedì, invece, dalle sette e mezzo, si studiava, si parlava, si discuteva e si litigava. A oltranza! In genere, non c’era un ordine del giorno, ma anche quando c’era, in fondo, si parlava sempre della “cosa”. La “cosa” era la “psicoanalisi come dev’essere”. Non sapevamo come doveva essere. Forse pensate che noi giàsi parlasse di soggetto, soggettività, intersoggettività. Non ècosì! Avevamo soltanto smesso di credere che la psicoanalisi fosse davvero una scienza normale come si diceva ancora ed eravamo abbastanza certi che la “psicoanalisi-com’era” non era la psicoanalisi-come-dev’essere. In quel momento, era giàabbastanza aggrovigliata. C’era la Psicologia dell’Io, predominante in Nord America, che si riteneva lo sviluppo genuino della disciplina fondata da Freud. In Gran Bretagna si erano attutite le infinite controversie tra la corrente kleiniana e quella guidata da A. Freud e da Jones e si era sviluppato impetuoso il non lineare contributo dei teorici della relazione oggettuale. In Sud-america, l’Argentina era marca kleiniana. In Francia prevaleva la rilettura lacaniana, mentre in Germania si andavano affievolendo gli echi della Scuola di Francoforte, che tramite Fromm aveva rinvigorito la corrente culturalista americana. Il noto articolo di Hartmann (1950) sull’Io, che rileggeva l’Io narcisistico del 1914 secondo un’accezione prossima alla nozione di “Self”, aveva consentito una robusta contaminazione tra la psicologia dell’Io e le istanze della relazione oggettuale, promuovendo teorie come quella della Mahler, della Jacobson e di Kernberg, ma, soprattutto, aprendo la strada alla prepotente revisione kohutiana, che minacciava la posizione dominante della psicologia dell’Io. In Italia prevalevano le posizioni kleiniane e lacaniane, poiché, a causa del fascismo, per molto tempo gli aspiranti analisti avevano dovuto emigrare a Londra o a Parigi per il loro training. Giungevano anche i segnali dissonanti della non ovvia riflessione bowlbiana.
Questa la situazione. Antecedentemente, nel 1958, si era svolto un importante convegno alla New York University, in cui la natura scientifica della psicoanalisi fu messa al vaglio della filosofia della scienza. Il giudizio degli epistemologi, nonostante la difesa di Arlow e Hartmann, fu inesorabilmente negativo a causa dell’impossibile traduzione operazionale degli asserti psicoanalitici. Rapaport però aveva raccolto la sfida e per due decenni aveva lavorato alla formalizzazione della teoria con l’intento di sottoporla a verifica. Il mondo psicoanalitico, però, in quelli anni, dibatteva piuttosto su tre grandi problemi:
1°. Il primo era stato innescato nel 1946 da Alexander che, con la famosa formula della “esperienza emozionale correttiva”, aveva lanciato un sasso insidioso quasi quanto quello con cui Davide irrise il gigante filisteo. L’asserto di Alexander non metteva in dubbio soltanto l’indiscussa fiducia nella triade interpretazione-insight-cambiamento, ma, evocando un fattore di cambiamento tarato sull’esperire invece che sul ricordare, metteva in discussione l’intera concezione del metodo e, conseguentemente, la piattaforma teorica su cui il metodo poggiava. La questione si chiuse nel 1961 al Congresso di Edimburgo, con il trionfo del gigante e la restaurazione ortodossa, che sterilizzòil sasso di Alexander con la riaffermazione dell’unicità dei fattori attivi conoscitivi nella forma sistematizzata da Eissler (1953) e dai suoi parametri.
2°. La nascita di nuove formule psicoterapeutiche rendeva poco concorrenziale l’oneroso impianto dell’analisi freudiana e molti analisti si trovarono costretti a modificare il setting, riducendo drasticamente il numero delle sedute e dando vita a quella che sarà chiamata Psicoterapia psicoanalitica. Si aprì così l’infuocato dibattito sul rapporto tra psicoanalisi (l’oro) e psicoterapia psicoanalitica (il bronzo), il cui spessore emerge facilmente, confrontando il famoso articolo di Gill del 1954 e il suo remake di 30 anni successivo.
3°. Infine, la psicoanalisi inglese poneva con forza il problema del “self”, del “mondo interno”, dei “rapporti oggettuali”, ma si preoccupava assai poco del rapporto da stabilire tra queste istanze soggettive e relazionali, la teoria dei processi e l’apparato metapsicologico.
In questa situazione aggrovigliata ci sembrava necessario tirare la linea per mettere ordine nelle cose. Tracciarla però era compito assai più complicato della semplice trovata di fissare la linea del tempo per sistemare Sumeri, Egizi, Babilonesi e Ittiti. Si trattava di disegnare la linea pulita della teoria per giungere più spediti alla psicoanalisi come dev’essere.
A quei tempi era chiaro che la psicoanalisi aveva tre differenti livelli di teoria: la teoria formale, indicata più spesso come metapsicologia, la teoria clinica o speciale e la teoria della tecnica. La prima èla vera teoria, perchésu di essa poggiano le altre due. Non ci vogliono centinaia di pagine per descriverla: Freud nel VII capitolo dell’Interpretazione dei sogni se la cava con poco più di una ventina. Rapaport se ne fa bastare anche meno. Ridotta all’osso, la metapsicologia si riduce ai “punti di vista”: topico, economico, dinamico, strutturale, cui si deve aggiungere quello genetico, non esplicitato da Freud. Si tratta di veri punti di vista, che guardano al vissuto e al comportamento dal punto di vista, appunto, della coscienza e dell’inconscio (topico), da quello delle energie (economico), da quello delle forze (dinamico), da quello delle funzioni strutturate (strutturale) e, infine da quello del divenire nel tempo (genetico). La metapsicologia, astratta e distante dal vissuto, è poco maneggevole, per capire Giacomo o Maria, per questo la psicoanalisi si era dovuta dotare anche di una teoria di medio livello, detta in genere teoria clinica che, grazie a generalizzazioni più vicine all’osservazione e all’esperienza, consentiva l’applicazione della teoria generale al caso singolo e al singolo sogno, sintomo o comportamento. Lo sviluppo psico-sessuale, l’Edipo, il narcisismo, i meccanismi di difesa, la formazione dei sintomi sono capitoli della teoria clinica, le cui modificazioni o confutazioni, non toccano la sostanza della teoria psicoanalitica. Infine, per utilizzare queste teorie in un intervento tecnico controllato, era necessario un ulteriore livello di teoria, il cui nome appropriato era metodo, ma, in genere, veniva indicato come teoria della tecnica.
I tre livelli non sono autonomi; dipendono logicamente l’uno dal’altro. Anzi, a voler essere precisi, tutta la piramide grava su un unico assunto, che si chiama “principio di costanza”, da cui dipende il principio del piacere, che regola l’economia, su cui poggia la dinamica, la quale, a sua volta, regge la topica con la fondazione sia dell’ inconscio topico che della più tarda struttura tripartita Io, Es e Super-io. Da questa concatenata architettura dipendono tutti i concetti della teoria clinica e, quindi, pezzi da novanta come le nozioni di fantasia inconscia, desiderio inconscio, intenzionalità inconscia, transfert e ancora lo sviluppo psicosessuale, il narcisismo, i meccanismi di difesa e via enumerando. Anche gli elementi essenziali del metodo dipendono dall’insieme del grappolo, perché, soltanto se reggono tutti gli anelli soprastanti, posso ragionevolmente pensare che, se rivelo a Maria le sue segrete intenzionalità inconsce, che la costringono a rovinarsi la vita, sarà in grado di smettere di rovinarsela. Ciò equivale a dire che l’assunto tecnico, che si può sintetizzare nella triade interpretazione-insight-cambiamento, presuppone la totalità della metapsicologia.
Oltre all’intrico delle differenze di scuola, c’erano altri segnali che suggerivano la necessità di tirare la linea. Erano segnali che vivevo in prima persona perché, avendo dedicato, per la tesi di laurea e la sua pubblicazione, sei anni allo studio storico-critico della teoria freudiana, mi ero andato sempre più convincendo che in quella costruzione le fondamenta non fossero giuste per quella pianta, che la pianta non fosse giusta per quell’alzato e che, per muoversi dentro quello spazio concettuale, era necessario ricorrere continuamente a invisibili “funi appese al cielo” (Dennett). Come non bastasse, giungevano da occidente altri segnali sinistri. Erano tuoni e lampi ancora lontani. Poi fu diluvio! Il lavoro di Rapaport aveva confezionato un imprevisto, involontario siluro che, armato puntigliosamente da Rubinstein, aveva colpito dritto il picciolo che reggeva tutto il grappolo delle tre teorie, segando di netto il principio di costanza e il concetto di energia. Era la santabarbara. Colpita e affondata!
Immagino che qualcuno di voi stia pensando: sì! va bene! Perchéci parli di queste vecchie cose di 40 anni fa… la metapsicologia… la teoria formale … il principio di costanza? Per capire la crisi che sta facendo a pezzi la Siria mica serve andare giù giù a frugare nelle viscere degli Ittiti! Certo! E’che vorrei farvi toccare con mano l’allora urgente necessità di tirare la linea…dapprima per lo sfrangiarsi della teoria in rivoli incomunicanti, poi per il suo crollo catastrofico. Ho, però anche un secondo intendimento. Le teorie sono una bellissima cosa, ma sono anche strani animali con una vita tutta loro e strane abitudini. Tu credi di pensare le teorie, ma èmolto piùvero che le teorie … pensano te. Quest’abitudine può congegnare trappole pericolose. Temo che, negli ultimi 30 anni, in una di queste trappole la psicoanalisi sia cascata con tutte le scarpe così che, magari anche oggi, quando tutto il mondo sembra diventato relazionale e intersoggettivo, potrebbe essere necessario … tirare la linea.
La banda dei sanculotti di via Casilina giunse presto a stabilire che, morta la teoria, era certo giusto piangerla, seppellirla con tutti gli onori per volgersi, però, dopo un congruo lutto ma prima possibile, a tirare un’altra linea, che consentisse di ordinare in modo nuovo le cose. Questo proposito traspare nel nome stesso che si diedero. Oggi è facile. Uno dice “Psicoanalisi della relazione” ed è qualcosa che va giù tranquilla. Per voi é un nome, che entra leggero nell’orecchio, scivola diritto per il nervo acustico e, giunto nella stanza centrale del vostro cervello, entra come uno di famiglia e i vostri gnomi mentali continuano a fare ciò che stavano facendo senza nemmeno badarci. Allora mica era così. Quel nome era una cosa né tonda né liscia. Era una pigna tutta bozzi e punte che quando, scorticando la rampa timpanica, arrivava nella sala comandi, metà degli gnomi incrociavano le braccia e la guardavano con sospetto: “e che è ‘sta cosa?”.
“Psicoanalisi”, oggi, ècosa fluida, che ognuno si puòaggiustare a piacere, come il pongo. Allora era cosa dura, precisa, una sfera di porfido nero. Apparato, energia psichica, realtàpsichica, pulsione, difesa, investimento, controinvestimento, rimozione, Io, Es, Super-io… La sfera non aveva un incavo o un gancio, cui appendere una cosa come “relazione”. “Psicoanalisi” spiegava sogni, sintomi, fantasie e relazioni. Tutto. Specificare “Psicoanalisi” con un “della” poteva significare soltanto l’applicazione della teoria a un oggetto particolare così se si diceva “psicoanalisi dei sogni o della relazione”, si doveva intendere la “procedura di spiegazione di...”.
Noi perònon s’intendeva questo. Quel “della” era una specificazione di psicoanalisi, non del suo oggetto. Ed era cosa irriverente e scorretta. Suonava male ed era anche poco presentabile. Per non dire, che “relazione”si sapeva mica cos’era: non esistevano mappe di “relazione”.
Discutendo e dibattendo si riuscì a chiarire che non si trattava di spiegare “relazione” con “psicoanalisi”, ma piuttosto “psicoanalisi” con “relazione”. Forse non lo sapevamo dire in modo così chiaro, ma a questo si giunse ed era l’inizio degli anni 80. C’era, infatti, un modo semplice e comodo, per dare un senso presentabile a “psicoanalisi della relazione”. Bastava accodarsi ai relazional-oggettuali. Facile, accettabile, utile per le … relazioni che contano. Era una strada in discesa, che, però, portava dritta al mentalismo. Cominciavamo, infatti, a capire che la mente, - ed era l’idea di soggettivitàe intersoggettivitàche cominciava a presentarsi! - non sta nella scatola cranica, èpiùfuori che dentro, ma èfatta di corpo, di neuroni. Di neuroni e di altre menti, che stanno fuori e, per entrare nel “dentro” della mente di Sara, devono ridiventare neuroni. I neuroni, però, tirano facile al riduzionismo!
Con il procedere degli anni ’80 questo ci diventava più chiaro e conseguentemente sembrava logico ci si dovesse rimboccare le maniche per tirare sul foglio una nuova linea, coerente con quanto sapevamo del funzionemento del cervello e con quanto le altre scienze dell’uomo ci dicevano a riguardo dell’azione umana. Non era semplice, però, per due motivi. Anzitutto eravamo impastati nella rete concettuale della teoria classica che, per questo, modellava i nostri tentativi di ripensamento della teoria più di quanto noi riuscissimo nel nostro tentativo di modificarla. Adesso èfacile capire che era l’idea stessa di “apparato psichico” a produrre il vischio che ci impaniava. E’ una delle conseguenza delle strane abitudini delle teorie cui prima facevo cenno. L’altro ostacolo invece era connaturato alla teoria psicoanalitica. A Freud era del tutto estraneo il concetto di “soggetto”, che, dunque, mancava del tutto nel nostro armamentario. Questo gli impedì (a lui, ma anche a noi!) di assumere un punto di vista organismico, in grado di giustificare dal basso l’unità bio-fisio-psicologica del soggetto, che doveva essere garantita invece in termini psicologici, e dunque dall’alto, delegando allo psicologico, e dunque a una parte, una funzione che logicamente dovrebbe essere attribuita alla totalità. In un certo senso, tutto il nostro lavoro, nella prima parte degli anni ’80, era volto al tentativo di superare questi due impedimenti, andando un po’alla cieca e risalendo il canalone scivoloso del concetto di Io, perché, a causa dell’idea di apparato e dell’assenza della nozione di soggetto, non potevamo intravedere altra possibilità se non quella di partire dall’Io.
La misura e la conta del lavoro compiuto ce la dava il convegno annuale, una specie di seriosa, goliardica, gita fuori porta. Il lavorio confuso di quei fumosi martedì, si coagulava in relazioni scritte, poi presentate e discusse, in una due-giorni di studio, che si svolgeva all’inizio dell’estate, in luoghi un po'sperduti, in cui elemento ricorrente era la presenza di un lago (Scanno, Ariccia). Erano relazioni corpose, estenuanti. Roba di ore! A rileggerle oggi (tre relazioni sono state fortunosamente ritrovate da Susanna Porcedda in un vecchio faldone dimenticato in cantina!) mostrano tutta la fatica a superare quei limiti e il faticoso approdo alla nozione di soggetto. In particolare mi ha fatto piacere ritrovarne una che si chiamava la “Fabbrica dei desideri”. In modo non del tutto consapevole, era l’anticipazione di un punto di vista organismico. Rileggendola, mi sono sorpreso a costatare che non ho fatto altro, in seguito, che sviluppare quello schizzo troppo fantasioso.
Faticosamente, però, arrivammo al soggetto! Una relazione al primo congresso ufficiale della SIPRe nel 1985 aveva come titolo “La rimozione del soggetto nella teoria psicoanalitica” e “Il soggetto psicoanalitico” è il titolo di un libretto pubblicato nell’ ’87, che forse detiene il record di libro meno letto della storia.
Mentre noi cosìsi faticava, accadevano cose importanti. Nel 1982 apparve il saggio di Gill sull’analisi del transfert e nell’’84 quello sulla psicoterapia psicoanalitica. Furono salutati con entusiasmo da quanti timidamente cominciavano a pensare al transfert in termini di interazione. Molto piùtardi, nel 1994, apparve il suo ultimo libro, che non tracciava la linea, ma indicava la direzione. Nel 1983 arrivò, invece, il libro di Greenberg e Mitchell sulle relazioni oggettuali che legge tutta la storia della psicoanalisi come il lento e tortuoso tentativo di superare il modello pulsionale per approdare a quello relazionale. Secondo Mitchell questa spinta è chiaramente visibile nelle formulazioni dei teorici delle relazioni oggettuali, che mirano a colmare lo iato tra il modello pulsionale e quello relazionale sino a portare sul finire del secolo all’affermazione chiara del secondo.
Un evento si ostinava invece a non accadere: il mondo psicoanalitico mostrava di non aver sentito le campane a morto dei rapaportiani e continuava a parlare di pulsione, libido, Edipo, come nulla fosse successo. Nel 1988, però, nella sessione inaugurale di un congresso dell’IPA e, quindi, come dire, ex cathedra, Wallerstein, che ne era il presidente, pronunciò la famosa prolusione dal titolo “Una o molte psicoanalisi?”. Era la risposta, ma non quella che avremmo sperato. Wallerstein spiega che la teoria di cui la psicoanalisi ha bisogno è una teoria di basso livello, in grado di elaborare i dati direttamente osservabili nell’interazione terapeutica e questa è anche tutta la teoria che i suoi dati possono sostenere e provare. Nel suo pensiero, tale teoria di basso livello è la teoria del transfert e della resistenza, del conflitto e della difesa. La teoria psicoanalitica èsemplicemente la teoria clinica! La metapsicologia - disse - non èla nostra teoria, ma la nostra mitologia, e non ce n’è una sola, ma tante. Così le teorie della Klein e dei post kleiniani, dei relazional-oggettuali, di Kohut e persino dell’incolpevole Schafer, (che si era tanto affaticato per propugnare l’idea che si dovesse fare a meno, persino, di una teoriuccia piccola piccola!), si ritrovarono promosse al rango di metapsicologie. La prolusione di Wallerstein chiuse definitivamente il discorso sull’esito dell’impresa di Rapaport e sulla morte della teoria formale. Se qualcosa èmorto fu qualcosa di irrilevante: è morta una metafora e non c'èbisogno alcuno di tirare una linea nuova sul foglio. Ci basta la teoria clinica. Da allora ogni discorso sulla teoria generale si èdefinitivamente estinto.
Accadevano peròanche altre cose. D’incanto, la psicologia dell’Io perse la sicurezza nel suo ruolo di erede autentica della tradizione psicoanalitica. Con la sicurezza e la supremazia perse anche il nome. Analogo destino ebbe la kohutiana psicologia del sé. Perse lo slancio, che ne alimentava una crescita apparentemente irresistibile sino a trasformarsi, in alcune sue componenti, in senso marcatamente relazionale o costruttivista come del resto accadde a consistenti minoranze dell’ex-psicologia dell’Io.
Il concetto di conflitto andòincontro a una rapida eclisse, divenendo sempre più raro nella letteratura e, improvvisa e inattesa, giunse anche una generalizzata preterizione dei concetti pulsionali. Non un dichiarato abbandono, ma una silenziosa e non dichiarata consegna all’oblio. La difesa della teoria pulsionale divenne rara, anzi, equivalente ad un’auto-dichiarazione passatismo. In questo orizzonte nebbioso, si doveva, infine, registrare l’irresistibile ascesa dell’intersoggettivismo americano.
Questi inattesi fenomeni non si accompagnarono né ad un’analisi critica delle conseguenze, che il venir meno del quadro pulsionale avrebbe dovuto implicare per la stragrande maggioranza dei concetti, non solo della metapsicologia, ma anche della clinica, néad una qualunque dimostrazione del fatto che si possa effettivamente espellere la pulsione dal corpo teorico e continuare ad usare concetti come transfert, rimozione, difesa, inconscio, fantasia inconscia. Di fatto la teoria formale fu relegata in un limbo: nédifesa néconfutata, silenziosamente avvolta nell’ovatta e dimenticata dietro la convinzione che la teoria psicoanalitica èla teoria clinica nelle varie declinazioni di scuola.
Questa inerziale chiusura dei giochi ha incoraggiato:
1. il giàrobusto disinteresse degli psicoanalisti e degli psicologi clinici per la teoria;
2. l’idea che i cosiddetti paradigmi siano auto-fondati, auto-giustificati, auto-sufficienti e, persino, equivalenti;
3. la certezza che i concetti della teoria clinica siano del tutto validi e che, col ritocco di una qualche vernice, magari relazionale o intersoggettiva, siano forti e vitali;
4. la tendenza al “fai da te”e al “taglia e incolla” nella costruzione di personali teorie per la propria pratica clinica, confidando che esista, da qualche parte, un pavimento, che regge un’improbabile scaffale nei cui ripiani collocare il “ciòche mi piace” di Winnicott, di Kohut, di Weiss, di Stolorow o di Mitchell;
5. la sicurezza che l’esperienza clinica giustifica l’... esperienza clinica!