Freud spiegava l’oscurità, l’irragionevolezza e le bizzarrie del linguaggio onirico con il lavoro del sogno sinteticamente così descritto nel cap. VI della Interpretazione dei sogni:
“Viene ora fatto di pensare che nel lavoro onirico si manifesti una forza psichica che da un lato spoglia della loro intensità gli elementi dotati di alto valore psichico e dall’altro crea, dagli elementi di minor valore, mediante la sovradeterminazione, nuovi valori che giungono poi nel contenuto del sogno. Se le cose stanno in questo modo, nella formazione del sogno hanno luogo una traslazione e uno spostamento delle intensità psichiche dei singoli elementi, donde deriva la differenza di testo esistente tra contenuto e pensieri del sogno. Il processo che qui supponiamo è addirittura la parte essenziale del lavoro onirico: esso merita il nome di spostamento onirico. Spostamento e condensazione sono i due artefici alla cui attività possiamo principalmente attribuire la configurazione del sogno”.
Spostamento e condensazione nell’intenzione freudiana sono condensazione e spostamento di cariche d’investimento da una rappresentazione a un’altra, che hanno come risultato la traslazione su una rappresentazione di un’intensità e di una quantità, che la sovra-determina e la fa diventare sovraintensa. Questo meccanismo, denominato falso nesso, fu esplorato da Freud già negli anni 94-95 in riferimento a problemi relativi ai processi di produzione sintomatica, che diventeranno poi carne e sangue del concetto di transfert.
Se trascurando le spiegazioni quantitative ed energetiche, ci atteniamo alla semplice descrizione delle caratteristiche del linguaggio onirico, condensazione e spostamento descrivono un tipo di falso nesso che nella vita di tutti i giorni siamo soliti chiamare metafora. Oltre 40 anni fa U. Eco sottolineava che i meccanismi della metafora e segnatamente della metafora per analogia, sono strettamente apparentati ai meccanismi freudiani del sogno: (nella metafora) “due immagini si sovrappongono, due cose diventano diverse da sé stesse, ne nasce un ircocervo visivo (oltre che concettuale). Non si direbbe che ci si trova di fronte a una sorta di immagine onirica? E infatti l’effetto della proporzione instauratasi è assai simile a quello che Freud chiamava “condensazione”: dove possono cadere i tratti che non coincidono, mentre si rafforzano quelli comuni. ... il risultato finale della proporzione aristotelica è proprio un processo affine alla condensazione freudiana, e (...) questa condensazione (...) può essere descritta nel suo meccanismo semiotico in termini di acquisto e perdita di proprietà o semi che dir si voglia”. Già R. Jacobson aveva ricollegato i meccanismi descritti da Freud con la metonimia e la metafora e Lacan aveva sviluppato tale indicazione, assimilando lo spostamento alla metonimia e la condensazione alla metafora.
Pensare che il lavoro della metafora possa sostituirsi alla condensazione e spostamento nel lavoro del sogno potrebbe sembrare una trovata furba e riduttiva, ma, benché nell’ottica freudiana la metafora non abbia alcuna valenza causativa, nondimeno essa, anche nel discorso freudiano, si radica profondamente nel tessuto analitico, situandosi come punto di snodo tra il livello astratto del modello, le articolazioni psicologiche della clinica e le procedure della tecnica. In questo quadro, essa si offriva, infatti, come punto di scambio, in cui potevano convergere la concezione stessa del sintomo, del significato, dell’interpretazione, del metodo, ponendosi come logica e naturale punta di diamante dell’interpretazione. Ma c’è di più perché la distinzione tra rappresentazione della parola e rappresentazione della cosa consentiva di affermare che il sistema inconscio, che “... contiene gli investimenti che gli oggetti hanno in quanto cose” (Freud, 1915), è il non detto e non dicibile, ciò cui è rifiutata la traduzione in parole. Così inteso, l’inconscio freudiano si porrebbe come naturale punto d’insorgenza d’ogni possibile metafora nel sogno, nella nevrosi, nel discorso e nella vita quotidiana. La metafora, infatti, si colloca necessariamente come interfaccia tra il non dicibile e il codice linguistico, mettendo in gioco elementi che sembrano travalicare l’ambito linguistico.
Eco, concludendo il discorso sulle caratteristiche generali dell’espressione metaforica, afferma che: “... la metafora suona a scandalo di ogni linguistica, perché è di fatto meccanismo semiotico che appare in quasi tutti i sistemi di segni, ma in modo tale da rinviare la spiegazione linguistica a meccanismi semiotici che non sono propri della lingua parlata. (...). In altri termini non si tratta di dire che esistono anche metafore visive (...) o che esistono anche - forse - olfattive o musicali. Il problema è che la metafora richiede spesso per essere in qualche modo spiegata nelle sue origini, il rinvio a esperienze visive, auditive, tattili, olfattive. Insomma la metafora è violazione della lingua eppure dice qualcosa in un modo che la lingua non sa spiegare in virtù di un rimando a domini non linguistici (…).
Questa caratteristica della metafora di rimandare a domini non linguistici incrocia l’altra sua proprietà essenziale e cioè con quella di costruire un falso nesso, trasferendo significato da un elemento a un altro. Siamo abituati a leggere questo trasferimento di vissuto nei contesti solitamente indicati come transferali, ma non è stato forse sufficientemente sottolineato dalla letteratura che il verbo utilizzato da Freud per indicare l’azione del traslare o del trasferire è űbertragen, che traduce il latino transferre, (da cui transfert), ma che è, anche letteralmente, corrispettivo del greco metaphorein. I tre verbi denotano in modo simile il concetto di portare sopra e oltre e ben si prestano a esprimere un aspetto essenziale del lavoro del cervello come macchina conoscitiva: auto-organizzarsi in base alle risultanze delle transazioni con l’ambiente, usufruendo del passato per progettare e realizzare il futuro, funzionando da macchina previsionale per anticipare cosa accadrà “dopo”. La metafora, ma anche il semplice linguaggio, consentono di trasferire il significato alle situazioni derivate o assimilate e ad ambiti considerati corrispondenti per somiglianza, analogia o parentela funzionale. Ciò permette di allargare le acquisizioni sperimentate in un campo conosciuto a un ambito sconosciuto o analogo o traslato. In tal modo i funzionamenti “superiori” (semantici, simbolici e linguistici) non solo funzionano sempre in parallelo rispetto a quelli “inferiori” (somato-sensoriali, emozionali, iconici, procedurali...), ma contemporaneamente poggiano su di essi allo stesso modo in cui l’attico poggia sulle fondamenta e ne rispetta la forma di stabilità. In quest’ottica il trasferire lungi dal riferirsi a un fenomeno nel senso freudiano del termine è la legge essenziale di funzionamento del cervello e della mente sia “dall’alto in basso” che “dal basso in alto”.
Oltre al magico e fantasioso carrello trasportatore della metafora, il laboratorio che fabbrica il sogno di Giuseppe dovrà disporre di altre strumentazioni e, in particolare, di un’ampia scaffalatura che ospiti i banchi di memoria, di una basica attitudine narrativa e di un aggeggio che consenta la traduzione delle immagini in parole e delle parole in immagini.
Il sogno narrato nel presente assembla liberamente nella scena brandelli di passato. Dunque il laboratorio di Giuseppe dovrà disporre di tutti i tipi di memoria che conosciamo: della memoria a breve che, come fornitrice di resti diurni era già il primo fornitore del sogno freudiano, di quella a lungo temine perché il sogno tesse le sue storie senza rispetto del calendario e della cronologia, ma anche della memoria semantica ed episodica e soprattutto anche del gran calderone oscuro della memoria implicita. Quando siamo intenti a rievocare qualcosa a livello semantico o episodico (e accade di norma nel sogno) sappiamo che stiamo ricordando qualcosa; ciò che non accade, invece, nel caso della memoria implicita. Con la memoria semantica siamo in grado di rievocare dati e informazioni, persino sequenze intricate di collegamenti logici, mentre con quella episodica siamo soliti abitare un ricordo come in un effettivo viaggio nel tempo con la rievocazione di situazioni e vissuti soggettivi emozionalmente marcati e di rivissuti scenici e sensoriali e forse somato-sensoriali. Inoltre nell’ambito di questo tipo di esperienza il nostro vissuto può essere evocato da osservatore (come se io assistessi alla riproposizione della scena guardandola dall’esterno) oppure da partecipante, (cioè dall’interno e in genere con una più intensa partecipazione emotiva). Tutte evenienze mnestiche che siamo abituati a riscontrare nei sogni narrati, in cui però ha particolare rilevanza la più sotterranea e meno facilmente identificabile attivazione della memoria implicita.
La riattivazione dei ricordi impliciti è spesso influenzata da fattori dell’ambiente interno o esterno. Quando è presente un isomorfismo tra la situazione attuale e quella ricordata si parla di ecforia che dipende dalle caratteristiche dello stimolo scatenante e dalle modalità con cui tale rappresentazione è stata registrata nella memoria. A questo effetto è legato il fatto che il richiamo di ricordi espliciti è facilitato quando le condizioni in cui ci troviamo sono simili (dal punto di vista interno o esterno) a quelle che erano presenti al momento della registrazione del ricordo. La memoria esplicita è cioè contesto-dipendente. Talvolta però possiamo avere un ricordo di un avvenimento senza tuttavia avvertire alcuno stimolo scatenante. In alcuni casi una breve analisi rende possibile trovare in qualche analogia o isomorfismo tale configurazione scatenante. È anche possibile avere tuttavia una netta sensazione ecforica e di stare dunque viaggiando mentalmente nel nostro passato anche se in realtà quell’avvenimento non si è mai verificato. Una esperienza ecforica è più o meno ricca in relazione alla complessità degli stimoli che l’hanno stimolata e che possono dare origine a una cascata associativa, ma anche l’ecforia iniziale può essere seguita da una ulteriore cascata di legami associativi determinati sia dal contenuto del ricordo che dalla situazione attuale. Ciò che, in generale, porta a un rimodellamento costante dei ricordi.
Gli stimoli (esterni, ma anche semplicemente interni…al cervello) possono riattivare sia la memoria semantica ed episodica che quella implicita. Gli elementi impliciti non sono associati a un ricordo, ma sono appunto sensazioni, emozioni, schemi di comportamento, oppure un’onda di sensazioni e immagini interne che solo in secondo momento possono essere associate a ricordi espliciti. Il fatto è che noi sentiamo percepiamo e filtriamo gli elementi della nostra memoria esplicita attraverso i modelli mentali della nostra memoria implicita. Talvolta, ma non sempre, è possibile scoprire (o credere di scoprire) i misteriosi agganci tra questo fiume emozionale, somato-sensitivo e previsionale con il contenuto del ricordo esplicito.
C’è un ulteriore strumento da considerare nell’armamentario della fabbrichetta di Giuseppe e cioè l’attitudine narrativa. Già Freud aveva attribuito un ruolo importante nella costruzione del sogno alla struttura narrativa che era parte essenziale della elaborazione secondaria nel lavoro del sogno. Da allora però l’attitudine narrativa dell’Io ha assunto un peso assai più rilevante. Sempre più nelle teorie della soggettività l’Io è visto infatti come un io narrante, a un tempo autore e risultato delle sue narrazioni. Anticipata da Vygotskij negli anni venti, questa concezione è stata sviluppata dal semiologo Bacthin. Vygotskij osservava che quando un bambino costruisce o co-costruisce con i genitori racconti, interiorizzando le sue esperienze con i genitori si crea pensiero e ci sono molti segnali per intendere anche le forme di riflessione su noi stessi come derivate da forme narrative di comunicazione intersoggettiva. Secondo D. Dennett il “raccontare storie” è la fondamentale tattica di auto-protezione, auto-controllo e autodefinizione propria di homo sapiens. Tale sostanza narrativa dell’Io, che tesse i suoi racconti dai quali è contemporaneamente tessuto, ha una potente articolazione biologica e può essere paragonata al tessere tele dei ragni o al costruire dighe dei castori. Tale attitudine narrativa implica regole e modelli culturali comuni, ma anche canovacci e schemi narrativi che organizzano in sequenze la molteplicità dell’esperienza. Ciò sembra potersi affermare non solo dei racconti in cui si articola la memoria esplicita, ma anche per le strutture organizzate della memoria implicita. Stern ha introdotto la nozione di involucro proto-narrativo per intendere un canovaccio pre-verbale che regola una sequenza tensio-emozionale mentre Damasio si riferisce alle proto-strutture neurali del senso corporeo di sé come a delle sequenze scenico-narrative. In questa ottica il fatto che un sogno si presenta essenzialmente come un racconto può avere un significato più profondo rispetto a quanto inteso dalla elaborazione secondaria freudiana. Infatti lo schema narrativo (e dunque l’organizzazione di elementi secondo un flusso temporale e spaziale) sembra il format base di organizzazione della nostra esperienza sia nel nostro raccontarci ciò di cui diventiamo consapevoli (per esempio il sogno che abbiamo appena fatto) sia delle sequenze della nostra memoria episodica, sia delle sequenze proto-narrative della nostra memoria implicita. Non ci sarebbe dunque da stupirsi se anche gli gnomi e le cooperative di gnomi che operano nel laboratorio dell’artigiano del sogno svolgono anch’essi un lavoro essenzialmente narrativo e riutilizzano nel loro tessere nuove storie con gli elementi da processare e integrare, vecchie e vecchissime storie nel loro pandemonio parallelo. Questa congettura potrebbe restituire significato anche alla congerie d’immagini del sogno come fatto.
Detto della memoria e dell’attitudine narrativa, resta da dire dell’aggeggio che traduce le parole in immagini e le immagini in parole. Il sogno narrato è fatto di parole, ma non c’è di norma nel sogno un narratore o un speaker degli gnomi mentali che racconta in parole una storia alle altre cooperative di gnomi. Anche un film o un fumetto è una narrazione. Certo i film e i fumetti attuali sono un compromesso tra immagini e parole, una volta però i film erano narrazioni tessute di pure immagini seppure di immagini in azione (si pensi alla Corazzata Potemkin o alle comiche di Charlot). Come si può passare dalle immagini alle parole e viceversa? Italo Calvino, trattando dell’immaginazione e della fantasia, descrive due processi: il primo parte dalla parola e arriva all’immagine visiva, mentre il secondo parte dall’immagine visiva e arriva all’espressione verbale. Egli scrive nelle “Lezioni americane”: “Nel cinema l’immagine che vediamo sullo schermo era passata anch’essa attraverso un testo scritto, poi era stata vista mentalmente dal regista, poi ricostruita nella sua fisicità sul set per essere definitivamente fissata nei fotogrammi del film. Il film è dunque il risultato di una successione di fasi, immateriali e materiali, in cui le immagini prendono forma, in questo processo il cinema mentale dell’immaginazione ha una funzione non meno importante di quella delle fasi di realizzazione effettiva delle sequenze come verranno registrate dalla camera e poi montate in moviola. Questo cinema mentale è sempre in funzione in tutti noi - e lo è sempre stato, anche prima dell’invenzione del cinema - e non cessa mai di proiettare immagini alla nostra vista interiore”.
Ci sarebbe dunque una funzione in grado di commutare emozioni e sensazioni in immagini. Secondo gli esperimenti di Kosslyn ci sarebbero effettivamente due processi in parallelo operanti una continua traduzione delle immagini in parole e delle parole in immagini.
Avendo, dunque, considerato l’attrezzatura di cui il laboratorio deve essere dotato e che deve poter utilizzare per costruire un sogno, possiamo introdurci di soppiatto nella fabbrica del sogno di Giuseppe. Partiamo dall’assunto che il sogno narrato potrebbe forse costituire un esempio particolare della procedura attraverso cui si assemblano e costruiscono i significati e concretamente che siano un modo fantasioso di utilizzare la ricetta consueta per costruire significati magari al modo di un cuoco buffo che seguisse una ricetta, ma utilizzando gli ingredienti un po’ alla rinfusa a seconda della disponibilità, vicinanza, somiglianza o di qualunque altra convenienza. A quanto pare, soprattutto nella fase REM, il cervello si affatica a rielaborare e riordinare i vissuti del giorno come un artigiano che dopo una giornata di lavoro si dia da fare per mettere a posto i prodotti finiti, ordinare gli arnesi e gli oggetti in lavorazione, ripulire il banco di lavoro e gettare gli avanzi. Cerchiamo dunque di figurarci il lavoro dell’artigiano di Giuseppe, che riordina il suo laboratorio e il prodotto del suo lavoro.
Già Freud sapeva bene che il lavoro del sogno parte dai residui diurni e ognuno di noi sa che in sogno normalmente sono riconoscibili gli accenni agli eventi e problemi, i progetti, le preoccupazioni e le ansie che ci hanno occupato nel giorno o nei giorni precedenti o ci attendono per il giorno successivo. Talvolta però questi rimandi sono assenti o non riconoscibili come nel caso dell’ecforia e ancora come nel caso dell’ecforia a volte nel sogno viviamo (come osservatori o come partecipanti e talvolta come osservatori e come partecipanti) situazioni che poi una volta svegli riconosciamo di aver effettivamente vissuto (quante volte abbiamo dato l’esame di maturità nei sogni?) oppure viviamo come se l’avessimo effettivamente vissuta una situazione che in realtà non abbiamo mai vissuto (ricordo un mio bellissimo sogno in cui mi godevo in volo le foci del Tago, su cui naturalmente non ho mai…volato!) Dagli studi di Damasio sappiamo anche che la presenza di un oggetto nella corteccia è di per sé in grado di muovere il lavoro della corteccia prefrontale e le sue connessioni con l’amigdala e il corpo cingolato, a prescindere che l’oggetto sia presente come percetto, come idea o come rappresentazione iconica. Sappiamo anche che un isomorfismo, una somiglianza o una analogia favoriscono la rievocazione di ricordi caratterizzati da tali isomorfismi o somiglianze. Conseguentemente se un oggetto o situazione o evento è presente nella corteccia tenderà a riattivare ricordi che abbiano somiglianza o analogia secondo un effetto ecforico.
Giuseppe, dunque, magari nel momento in cui si attiva una fase REM, apre la porta del laboratorio, accende la luce ed è sommerso da una miriade di “oggetti”: resti di pensieri, spezzoni di immagini, racconti di eventi, progetti, desideri, sentimenti ed emozioni collegate a questo o a quello, tutti elementi che nella vita reale erano connessi e più o meno collegati o scollegati secondo la logica delle cose (causale, temporale, spaziale...) della nostra ordinata vita diurna. L’artigiano deve però sistemare tutto questo guazzabuglio secondo la logica del laboratorio, nel senso del suo essere macchina che prevede e costruisce il futuro e del suo essere macchina auto-organizzata in ragione del suo consueto funzionamento. Tutti questi elementi devono essere organizzati cioè secondo il senso del mondo di dentro. Presumibilmente ogni porzione o agenzia del cervello fa il suo lavoro, per conto suo. In verità il nostro artigiano non lavora lui pezzo per pezzo. Nel suo laboratorio infatti ci sono migliaia di gnomi che in gruppi di lavoro e secondo posizionamenti preformati portano avanti questo o quell’altro pezzo del progetto, ognuno per suo conto impegnati con strutture di racconto da tessere con elementi nuovi e antichi. Nel giorno precedente al sogno, Giuseppe, che insegna filosofia, preparava una lezione sulla metafora e sintetizzava per i suoi studenti gli asserti di Aristotele. Infatti, una parte della corteccia ripropone qualcosa che un cartellino indicherebbe come “asserti di Aristotele sulla metafora”, mentre un’altra parte processa invece un oggetto “albero di Porfirio”, un altro l’ “albero della vita”, un altro ancora l’“albero caduto che ho visto”. Nella giornata precedente questi collegamenti erano abbastanza coerenti salvo l’albero caduto che chissà perché ci sta e che muove un gruppetto di gnomi che, lavorando su “albero caduto”, incoccia quello di un altro gruppo che, processando “la mela che ho mangiato stamattina”, ha trovato in uno scaffale, da cui uno gnomo l’ha tolta fuori, una mela che aveva quel sapore e che era il frutto di un albero, che cadde per colpa di un trattorista distratto. Quella volta Bartolo, che era il gatto dell’artigiano, perse la sua postazione estiva preferita e l’artigiano la sua “fabbrica di mele”. Nel frattempo gli gnomi del prefrontale e quelli dell’amigdala trovano, invece, che la mela oltre a deliziosi rimandi palato-labiali muove onde emozionali di altro genere. L’artigiano, infatti, un giorno offrì una di quelle mele a Teresa e l’immagine riproposta muove una corporazione di gnomi specializzata a valutare sensazioni ed emozioni di genere assai piacevole che si illuminano come si illuminavano gli occhi dell’artigiano ogni volta che vedeva o pensava a Teresa. Su Teresa si danno però da fare altri seriosi gnomi del prefrontale e dell’amigdala, che evidenziano ondate di umori minacciosi finché una spia rossa si accende imperiosamente: Attenzione! Attenzione!”. Gli gnomi gettano via la “mela di Teresa”, ma non hanno potuto impedire il diffondersi di un fiotto d’aria malmostosa, acre e greve in tutto il laboratorio, investendo persino la “mela che ho mangiato stamattina” e Bartolo e l’albero delle mele. Uno gnomo solitario e pedante ha rinvenuto una antica mela, che nutre un verme grasso e rosa. Così alcuni gnomi del settore creativo trovano che ci vorrebbe “zia Teresa” con la sua scopa, per spazzare via queste ondate maleodoranti e verminose. Ma zia Teresa usava la scopa anche con il gatto come quando lo inseguiva menando di scopa per tutto il cortile...! Suona la sveglia! Giuseppe si sveglia e uscendo dal torpore, ricorda di aver sognato, stranamente e chissà perché, “il suo antico gatto Bartolo, che inseguito dalla zia Teresa, schizza sul melo, che improvvisamente si affloscia a terra fragorosamente spargendo intorno tutte le mele, che appaiono, come in primo piano, fradice e infestate di vermi”. Giuseppe non ci fece caso eppure per qualche tempo non ebbe voglia di mele!