Dunque, se “là fuori” non c’è una realtà oggettiva e oggettivamente percepibile, cosa c’è “là fuori”? Le due posizioni estreme rispetto a questa domanda sono storicamente quella idealista e quella naturalista oggettualista. La risposta idealista è espressa nella sua massima compiutezza e rigore da Berkeley: “in verità è un’opinione stranamente diffusa tragli uomini che le case, le montagne, i fiumi, insomma tutti gli oggetti sensibili abbiano un’esistenza naturale o reale, distinta dal loro essere percepiti dall’intelletto. Ma per quanto siano grandi la fiducia e il consenso di cui questo principio gode nel mondo, chiunque se la senta di metterlo in discussione scoprirà se non mi sbaglio, che esso implica una contraddizione manifesta. Infatti i suddetti oggetti non sono altro che le cose che percepiamo con i sensi e non percepiamo altro che le nostre idee o sensazioni”.
Sul versante opposto si collocano sia il senso comune che l’ oggettualismo naturalistico, che per quanto riguarda gli aspetti più prossimi all’ambito psicologico trovano la massima espressione nel fisicalismo tedesco della scuola di Berlino così espresso nel testo-manifetso del 1873: gli organismi sono sistemi di atomi mossi da forze, regolati dal principio di conservazione dell'energia. Le forze (essenzialmente di attrazione e repulsione) sono le cause reali del moto. Le forze devono spiegare anche i fenomeni superiori come la coscienza e la volontà secondo un riduzionismo radicale espresso, per esempio, nell’incipit del “Progetto” freudiano: “l’intenzione di questo progetto è di dare una psicologia che sia una scienza naturale, ossia di rappresesentare i processi psichici come stati quantitativamente determinati di particelle materiale identificabili, al fine di renderli chiari e incontestabili”.
Le due posizioni massimizzano l’una il “soggetto” l’altra l’ “oggetto”. Oggi prevalgono le posizioni integrazioniste. Vediamo per esempio in che modo sorprendente B. Russell conclude il suo saggio sulla mente: “Tutti i nostri dati, tanto quelli della fisica quanto quelli della psicologia, sono soggetti a leggi causali psicologiche; ma le leggi causali, almeno nella fisica tradizionale, si possono formulare solo nei termini della materia, che costituisce insieme una deduzione e una costruzione, ma non è mai un dato. Sotto questo aspetto, la psicologia è più vicina alla realtà della fisica”. Dunque il soggetto sembra prevalere sull’oggetto: il “mondo là fuori” e il significato sembrano essere sopratutto una “cosa della mente”, qualcosa che si costruisce nella mente e tra menti.
Allora cosa c’è la fuori? Nulla, tutto o cosa? Fuori c’è il minestrone quantistico, che con qualche semplificazione siamo abituati a chiamare materia, (che però, come dice Russell è una deduzione e una costruzione, non un dato!) e su cui, da qualche tempo a questa parte, cerchiamo di farci qualche idea e, a dire il vero, più si va avanti e più anche la solidissima materia sembra doversi dissolvere in qualcosa di più impalpabile.
Ognuno di noi, tutta la nostra specie, tutte le specie, ogni vivente è come se siamo dentro una scatola chiusa ma mobile con un forellino o una finestrella da cui entrano dati, informazioni attraverso qualcuno dei nostri sensi. Fino a ieri si riteneva che queste informazioni fossero essi stessi significati. Oggi appare sempre più chiaro che non è così. Per provare a capirne di più dobbiamo provare a raccontarci la storia sin dall’inizio.
Per semplificare il compito ci riferiamo, prevalentemente, a quello dei cinque sensi che ci sembra più rilevante e partiamo dall’assunto che la finestrella della nostra scatola sia un “occhio che guarda”, ma, in realtà e fuori metafora, è un occhio che progressivamente si è reso capace di funzionare come naso, orecchio, palato e tatto, mani, gambe, ali, cervello, mente, Io.…
In una delle più belle tra le sue Cosmicomiche, Italo Calvino (1965) racconta l’invenzione dell’occhio, attribuendone la paternità, non a un primo essere grezzamente occhiuto, ma a un organismo non vedente, che ha sollecitato altri organismi all’invenzione dell’occhio, creando la bellezza della sua conchiglia e costringendo l’occhio a svilupparsi per ammirarla. Non è certamente andata così, ma è una bella metafora del legame tra osservatore e osservato. Il mondo dei qualia, quale noi lo conosciamo, cominciò a essere costruito da esseri davvero minimi, procarioti, che impararono a selezionare, nel garbuglio delle onde, quelle, che siamo abituati a chiamare luce, servendosene per produrre lo straordinario comportamento, noto come fototassi. In questo modo, essi cominciarono ad accendere la ...luce e a illuminare la scena della vita, che, sino allora, era sempre stata buia – questo, però, possiamo dirlo solo ora a partire dalla luce. In tal modo, essi costruirono in un colpo solo l’osservatore e l’osservato, anzi, costruirono l’osservazione e l’osservato inventando l’osservatore: un minuscolo occhio e un piccolissimo cervello. L’occhio elementare della larva del verme marino Platynereis dumerilii (Jékeli et al., 2008, Arendt et al., 2002) permette di allungare lo sguardo sino a cogliere una semplice articolazione di questa geniale invenzione che, col tempo, permetterà di dipingere la Cappella Sistina, disegnare la mappa dell’universo e scrivere la formula della relatività. Gli occhi di questi piccoli animali sono formati da due sole cellule, una con pigmento e una foto-recettrice. Un filamento nervoso connette il foto-recettore e le cellule coinvolte nel movimento. Il fotorecettore capta la luce e la converte in segnale elettrico, che, viaggiando lungo la proiezione neurale, realizza la connessione con un fascio di cellule, che terminano con una serie di ciglia: occhio, luce, movimento e, in mezzo, un minuscolo cervello. L’invenzione dei procarioti fu ereditata dagli eucarioti, che la svilupparono, costruendo, col tempo, quadri comando sempre più sofisticati ed efficienti per ...accendere la luce, i suoni, gli odori e i sapori del mondo e attrezzandosi di ciglia, pinne, ali e arti per circolarvi dentro sino alla gazzella che, grazie a un significato, può sperare di evitare il leopardo e a Dante, che, muovendosi nella selva dei segni dei segni dei segni, ha potuto vedere i suoi esistenti mondi inesistenti. Verrebbe da dire che l’invenzione dei procarioti sta al super-occhio del nostro Io come l’invenzione della ruota sta alla Ferrari. Ciò che era davvero difficile era inventare la ... ruota! Da allora, per centinaia di milioni di anni, miliardi di miliardi di organismi e miliardi e miliardi di differenti utilizzazioni di quello strano mondo di qualia, organizzati in modo differente, hanno scavato la loro galleria di possibilità di vita nel ventre dell’universo quantistico, imparando del tutto a caso manipolazioni originali di pezzetti di quel mondo, in una serie ininterrotta di esperimenti cruciali, in cui posta in gioco è sempre stata la vita.
Una linea sperimentale imprevedibile e improbabile – favorita dalle caratteristiche di quel pezzo di brodaglia quantistica stiracchiata dalla deriva dei continenti, che forma la lunga spaccatura, che dal Mar Morto raggiunge l’Africa australe – cominciata una decina di milioni di anni fa, ma diventata più evidente negli ultimi tre, gettò le basi per quello straordinario superocchio che è l’Io, capace di muovere consapevolmente le cose, manipolando i segni delle cose. Le differenze riscontrabili tra i vari organismi nell’utilizzazione del mondo là fuori a partire dai qualia e dunque a partire dai segni delle cose invece che dalle cose, nella differente complessità nell’universo di segni, in cui essa è esercitata e, dunque, le differenze tra una mosca, una gazzella, un bonobo e un uomo sono valutabili in termini di complessità del cervello, che, a sua volta, consente di manipolare la complessità crescente dell’universo dei segni e dei segni dei segni. La lunga storia degli infiniti intrecci di questa duplice complessità correlata è, verosimilmente, il nido in cui si è schiuso, nel corso di due miliardi di anni, l’uovo del nostro super-occhio o, se preferite, l’uovo dell’Io!
Torniamo all’occhio. L’occhio che è la finestrella della nostra scatola chiusa e mobile è, in un certo senso, ancora l’occhio di quell’antico minuscolo vivente che lo inventò, inventando in quel modo anche la luce. Il nostro occhio è ancora quello ma nel frattempo è diventato molto più complesso e specializzato. Naturalmente esistono occhi molto differenti: quello delle renne vede l’ultravioletto che noi non vediamo (alle renne serve per vedere i licheni, unico cibo possibile quando c’è la neve!), quello della rana vede solo gli oggetti in movimento (per la rana sono importanti solo gli oggetti in movimento: cibo, partner, nemico), quello di molti insetti vedono un mondo assai più riccamente colorato (perchè il colore dei fiori è determinante per questi organismi, che peraltro anticipando Calvino, hanno “convinto” le piante a produrre fiori!), quello dei gatti e dei gufi sa vedere anche al buio (noi abbiamo preferito inventare fonti di luce artificiale: fiamme, torce, lampioni a gas, lampadine…!). Non ha molto senso chiedersi quale è l’occhio migliore: quello migliore è quello di ogni organismo perché è quello migliore per quell’organismo che proprio per questo se lo è scelto. Lo scopo della finestrella è infatti utilizzare le informazioni che entrano dalla finestrella per muoversi più efficacemente nel minestrone quantistico e mantenersi in vita. Dalla finestrella però non entrano né cose né significati, entrano solo “differenze”, cioè le differenze che le modificazioni del minestrone quantistico producono nel cervello. Il cervello, infatti, come non si stanca di ripetere Edelman, parla solo con sé stesso. Dalla finestrella non entrano né cose né significati, ma solo differenze, che il cervello, dialogando con sè stesso e le sue modificazioni, può assumere come segni.
E dunque per capire come l’occhio costruisce il mondo e le cose, dobbiamo rivolgerci all’evoluzione. L’occhio, che nella nostra semplificazione è metafora dell’io cosciente e della sua strumentazione e funzionamento, ha imparato a costruire il mondo e i significati integrando le acquisizioni, salendo progressivamente tre differenti gradini: Il gradino evolutivo, quello culturale, e quello soggettuale. I tre gradini poggiano tutti sulla memoria e, in un certo senso, sulla narrazione, perché a guardar bene anche il DNA è un immenso archivio di narrazioni e di memoria.
1. Evoluzione : il primo gradino è puramente evolutivo. Il nostro occhio (e anche il nostro Io) è l’evoluzione dell’occhietto del vermetto che abbiamo detto, proprio di quello. Buona parte del mondo “là fuori” è costruito dall’evoluzione di quell’occhio. Il nostro “occhio” infatti si costruisce in base a quanto hanno progressivamente inventato i procarioti, i primi eucarioti, gli insetti, gli anfibi, i rettili, e infine i mammiferi. Noi sottovalutiamo che condividiamo gran parte del nostro DNA con tutta la materia vivente: il nostro “occhio” ha un capitale di conoscenza evolutiva che è del solo 1% differente da quello dello scimpanzé comune (su tre miliardi di basi solo 30 milioni sono diverse), condividiamo il 30% del DNA con Saccharomyces cerevisiae, un organismo unicellulare meglio noto come lievito di birra, il 50% con le piante e il 90% con i topi. Il mondo e i significati costruiti dall’occhio di un’aragosta, di un cobra, di un coccodrillo, di un merlo, di un gatto, di uno scimpanzé e di un homo habilis (ma sotto molti aspetti anche dell’inquilino del piano di sotto) sono variazioni progressive sul tema e si differenziano in base al bonus-malus di ciascuna specie in rapporto al premio di sopravvivenza, padre e madre di tutti i significati.
2. Cultura: il secondo gradino è essenzialmente culturale. Presumibilmente il mondo e i significati costruiti dall’occhio di un’australopitecina come Lucy o di un homo habilis non era sostanzialmente differente da quella degli attuali scimpanzé e gorilla, ma da Erectus in poi le cose cambiano. Per capirlo basta dare uno sguardo al paleosuolo di Isernia, ma sopratutto cambiano con velocità impressionante quando l’occhio impara a parlare e con una velocità ancora maggiore a partire dalla cosidetta rivoluzione neolitica e con l’invenzione della “città”.
A prescindere dal problema del modo concreto, in cui, alcune centinaia di migliaia d’anni fa, un gruppo di primati ha cominciato a sviluppare forme più complesse di comunicazione sino a crearsi un vero, flessibile linguaggio, si può considerare l’impatto, che questa rivoluzionaria tecnologia organismica ha prodotto sull’ occhio che guarda là fuori. Il linguaggio, infatti, offre un meta-posizionamento radicalmente nuovo rispetto a quello della gazzella, che fiuta il leopardo, o dello scimpanzé, che può avvicinare una sedia, afferrare un bastone e servirsene per raggiungere la banana, rimasta, per qualche tempo, assente dal suo campo visivo. Consente di oggettivare cose, azioni, esseri, eventi e connessioni tra cose, azioni, esseri, eventi e di connettere rappresentazioni e parole, articolandole in frasi e, dunque, in azioni rappresentate e dunque di rendere esistente ciò che là fuori non esiste. Man mano ha permesso di istituire relazioni astratte (temporali, spaziali, causali...) tra cose, esseri ed eventi e di oggettivare non solo ciò che è diretto risultato dei processi (rappresentazioni di cose e rappresentazioni di azioni), ma anche ciò che è prodotto del linguaggio stesso (racconti, discorsi, idee, progetti...), generando, così, il pensiero. È la tecnologia radicalmente nuova della simbolizzazione linguistica, che consente alla materia biologicamente organizzata in un organismo soggettuale, di superare quella, che è sempre apparsa al pensiero occidentale l’invincibile antinomia tra materia e spirito, tra natura e cultura, tra spirito e materia e che si scioglie, invece, nell’anello ricorsivo, che lega computazione, linguaggio e pensiero. In tale anello, il legame circolare tra linguaggio e pensiero funziona come un acceleratore potente, che riorganizza a un livello radicalmente meta l’attività dell’organismo e la sua ecologia e la sua attività nella sua ecologia. In questo modo, anzi, questa rivoluzionaria tecnologia trasforma l’evoluzione darwiniana in lamarckiana (Ramachandran), consentendo a ogni generazione di trasferire le acquisizioni e gli apprendimenti, di accumulare le conoscenze assai più rapidamente di quanto non possa fare il gioco delle combinazioni genetiche, rendendo possibili le generalizzazioni, le congetture e il pensiero strumentale. In secondo luogo, essa permette un salto qualitativo nella specificazione dell’osservazione, perché rende possibile all’organismo di agire e di oggettivare contemporaneamente il ruolo dell’osservatore e dell’osservato in un unico display mentale e verbale e all’interno della stessa prospettiva e biografia oltre che in ogni singola azione.
Le conseguenze formative di questa acquisizione selezionata dall’evoluzione sono tanto ovvie, che è quasi un luogo comune affermare che il linguaggio ha fatto l’uomo, asserto da completare, tuttavia, in un più circolare il-linguaggio-ha-fatto-l’uomo-che-ha-fatto-il-linguaggio. Il linguaggio ha fatto l’uomo, consentendo di oggettivare, rappresentare e dire le interazioni tra gli organismi e l’ambiente e le interazioni interindividuali tra gli organismi, trasformando in intersoggettività la già accentuata socialità di un clan di primati. Il linguaggio, infatti, è essenzialmente intersoggettivo: produce soggettività e intersoggettività, che, producendo il linguaggio, si co-producono nella comunicazione e nell’interazione. Non sappiamo, infatti, quando e come, ma il linguaggio ha avviato la costruzione di un mondo ordinato, in cui le cose hanno un nome, rispondono a regole, si collocano secondo regolarità nello spazio e nel tempo onde è possibile prevedere, evitare, agire in vista di uno scopo. Avvenne per il mondo materiale delle cose, delle montagne e delle acque, delle piante, degli animali, delle strade e delle case, ma anche per il mondo delle persone, che diventano padri, madri, nonni, fratelli, sorelle, amici, operai, venditori, contadini, cantanti o calciatori. Parallelamente a questo mondo di fuori, la parola ha consentito la costruzione di un mondo di dentro, che ha un unico centro, itinerante nello spazio e persistente nel tempo, che ogni soggetto colloca nel luogo, in cui pone il proprio io-me e che è precluso a quanti non sono il suo unico abitante. Tale mondo di dentro ha man mano organizzato la sua geografia, in cui i territori si ordinano in pensieri, ricordi, emozioni, sentimenti, sogni, desideri, speranze. Il linguaggio permette ai singoli abitanti di questi mondi di dentro di scambiarsi mondi e pezzi di mondi. Questa singolare attitudine degli umani è diventata, anzi, l’impronta distintiva della specie.
Così dal giorno, in cui i suoni cominciarono a diventare parole, è stato tutto un intrecciarsi di mondi di dentro, che si scambiano mondi di fuori, tanto che non esiste informazione alcuna riguardo al mondo di fuori, se non quelle che passano per le innumeri relazioni, che ci pervengono da tutti i mondi di dentro esistenti o che sono esistiti nel pianeta ed hanno lasciato qualche traccia di sé. Per effetto di questo diuturno scambiare, i mondi di dentro e di fuori si sono agglutinati in un terzo (e unico) tipo di mondo fatto della materia dei mondi di dentro e di fuori così che i cuccioli si fabbricano il loro incipiente mondo di dentro, inglobando pezzi precotti di questo mondo di dentro-fuori transizionale. Il semiologo russo Lotman (1984) ha trovato un bel nome per questo mondo di mezzo, chiamandolo semiosfera, ma, poiché il gioco dello scambio nacque insieme alle parole e insieme a tutti gli io-me, il suo nome appropriato è proprio intersoggettività.
3. Esperienza soggettuale. Il terzo gradino su cui poggia l’occhio nella costruzione del mondo là fuori e dei significati, a partire da questo mondo di dentro-fuori transizionale reso possibile dal linguaggio e dalla cultura, è costituita dall’esperienza soggettuale, dalla storia concreta di ogni individuo, che in quel mondo transizionale e intersoggettivo si svolge e si racconta incessantemente. Se il gradino evoluzionistico, sulla base dei qualia, costruisce un mondo là fuori abbastanza simile per tutti i viventi, seppure differenziato tra specie e specie (pensate al mondo acquatico dei pesci, al mondo aereo degli uccelli, al mondo prevalentemente innevato degli animali artici a quello della savana dei guardiani della prateria…) e se il secondo, quello culturale costruisce il mondo tipicamente umano assai differente da quello di tutte le altre specie viventi e con un enorme impatto anche sul “mondo fisico e geografico”, il terzo gradino costruisce un là fuori che è in gran parte proprio di ogni singolo soggetto ed è funzione della sua esperienza soggettiva. Non ho bisogno di entrare nei particolari sulle caratteristiche che questo terzo gradino dà all’occhio che guarda là fuori. Per più di due anni studiando a oltranza un unico caso clinico nel progressivo incedere dell’interazione terapeutica, abbiamo visto il funzionamento dei vincoli di un soggetto nel costruire il suo mondo e i suoi significati. Il terzo gradino è costituito infatti dalle reti di vincoli che, associando un vissuto del corpo un’emozione a una modificazione ricorrente nella configurazione neuronale e, quindi a un oggetto, un’immagine, una situazione, una configurazione relazionale, dirige la costruzione del significato e dell’azione di ogni singolo soggetto.
I tre gradini su cui poggia l’occhio che guarda e costruisce il mondo là fuori hanno tutti la stessa logica: utilizzano il passato per prevedere il futuro, in senso sia spaziale che temporale, per avere un vantaggio: se in passato lo stimolo A ha prodotto un vantaggio promuoverà ripetizione e nel caso del singolo individuo un’azione di avvicinamento, se ha prodotto uno svantaggio tenderà a produrre allontanamento o in termini di difesa o in termini di fuga.