Testo presentato a Verona il 17. 10. 2015
All’inizio della mia attività professionale ero convinto che, per stare attentamente sul pezzo, dovessi con ogni cura tenere una sorta di aggiornato “registro del trattamento”in cui annotare diligentemente, seduta per seduta, ogni accadimento, parola, sogno, associazione del paziente. Avevo pochi pazienti, molto tempo, scarse sicurezze e tantissima energia, dunque, scrivevo, scrivevo e scrivevo, ma raramente avevo tempo e modo di leggere quanto avevo scritto. Forse, da qualche parte, ci sarà ancora quel brogliaccio di fogli fitti fitti di scrittura. A quel tempo ero troppo preoccupato della necessità di tenere a mente tutto e, conseguentemente, troppo occupato a scrivere! In realtà tutto quello scrivere serviva, più che altro, a tenermi al riparo dall’inevitabile ansia del principiante. Ci volle del tempo per rendermi conto che questa puntigliosa attività amanuense non era necessaria e che era meglio fidarsi semplicemente della memoria.
Ciò che serve per una buona e attenta attività clinica, da questo punto di vista eminentemente tecnico, è altra cosa: serve un’attenta, compiuta e progressiva analisi del caso e, dunque, è necessario acquisire questa competenza ed esercitarsi in questo compito. Nella mia attività di supervisione ho spesso potuto osservare che la lacuna maggiore lasciata dalla scuola di specializzazione nell’armamentario tecnico dei neo-diplomati è proprio una scarsa formazione, competenza, attenzione e motivazione a compiere l’analisi del caso. E’ una spiacevole conseguenza del modo in cui solitamente è trattata in classe la mole (spesso inutilmente esorbitante!) di materiale clinico offerta dagli insegnanti di tecnica, che finisce per privilegiare la singola situazione clinica invece che la visione più complessiva e l’analisi particolareggiata. La supervisione didattica, inoltre, può difficilmente colmare questa lacuna perché il supervisore si assume (o finisce comunque per accettare di assumere) il ruolo di colui che tiene il timone e governa la navigazione.
Non ho mai scritto nulla su questo punto né ho mai avuto modo di approfondire il problema a scopi illustrativi o didattici, - la mia esperienza didattica ha sempre riguardato l’ambito teorico o teorico-tecnico - posso quindi semplicemente attingere alla mia esperienza, cercando di mettere in parole ciò che la mia mente fa, quasi automaticamente, quando si trova innanzi al caso.
Mi preme precisare subito un punto: è necessario distinguere accuratamente l’analisi clinica del caso dallo studio teorico-clinico sul caso.
- L’analisi clinica del caso non ha finalità di studio o di ricerca teorico-scientifica e non deve averla. Ha una pura e semplice finalità terapeutica: serve a orientare il lavoro clinico, a stare sul pezzo e dentro al caso, a favorire l’assetto interno ottimale, oltre che a fungere da orientamento di massima nella scelta del materiale su cui intervenire e sul come intervenire. L’analisi clinica del caso serve cioè soltanto a “comprendere Maria”.
- L’analisi teorico-clinica sul caso ha, invece, una finalità del tutto differente e si ripropone, a partire dallo studio critico delle teorie esistenti e dall’esame del materiale clinico, di migliorare questo o quel punto di una teoria esistente o di giungere a definire e precisare la strumentazione concettuale o anche a disegnare un semplice concetto nell’intento di modificare un asserto teorico, di perseguire una sua differente e più precisa formulazione o - se si è in un momento di crisi o assenza di teoria come questo - di giungere a formulare ipotesi più ragionevoli rispetto a questo a quel nodo teorico o persino di giungere a una catena di ipotesi che portino a una teoria più definita. L’analisi teorico-clinica non serve a comprendere Maria ma a conoscere, concettualizzare e spiegare meglio i comportamenti e i vissuti di tutte le Marie.
E’necessario non confondere e non sovraporre questi due livelli d’indagine: il primo è eminentemente pratico, tutto attento alla singolarita del singolo caso e ha come scopo l’accuratezza e preoccupazione tecnica e professionale nel trattamento di quel singolo caso. Il secondo, invece, è specificamente conoscitivo e mira, dunque, non al singolo caso, ma alla generalità dei casi, è astratto invece che concreto, non si riferisce primo e per sé al vissuto di Maria, ma a quello della mente in generale, la mente di tutte le Marie e di tutti i Giacomi.
I due livelli di indagine hanno anche un differente rapporto con la teoria, con il pensare teorico e con l’ereditàteorica del passato.
Spesso si sente dire che il corretto atteggiamento terapeutico deve essere libero da filtri teorici, da precomprensione, memoria e desiderio e, a questo proposito, si cita volentieri Bion e si raccomanda una disposizione interna tesa a “vedere in maniera immediata ciò che è” e, parafrasando appunto Bion, si ripete spesso che “Bisogna essere liberi da comprensione, da memoria e da desiderio per liberare l’intuizione dalle opacità che la offuscano, per vedere le cose come sono e non come ci aspettiamo che siano, in un atteggiamento di sospensione e distacco critico”. Temo che l’aspirazione a questa “libertà” interna sia del tutto illusoria. In seduta così come nell’esame più a freddo del caso clinico, che ne siamo o no consapevoli - ed è meglio esserne consapevoli - non possiamo sottrarci all’azione pervasiva di tre filtri teorici:
- Il primo filtro è quello della teoria che ufficilmente diciamo di seguire, se riteniamo di averne una, ma, da questo punto di vista, anche “il non avere una teoria”- o “l’esplicita rinuncia a ogni teoria” è una teoria e un filtro, forse forse anzi il filtro più pericoloso, perché finisce per lasciare il terapista in preda alle sua teorie implicite;
- Il secondo è quello dell’eredità storica dei vari strati di teoria che ci hanno preceduto, che si sono sedimentati come una sorta di “conoscenza ovvia”, la quale facilmente ai nostri occhi può diventare “ciò che effettivamente è” o “le cose come sono”;
- Il terzo filtro, infine, è quello della nostra teoria più privata e personale che anzitutto modella già il racconto quotidiano della nostra esperienza e del nostro vissuto, ma che silenziosamente e nascostamente veste di soggettivo quanto ci appare macroscopicamnente oggettivo.
Sia che abbiamo una teoria consapevolmente accettata, con i vati gradi di sicurezza possibile, sia che ci riferiamo più genericamente, date le condizioni del nostro tempo, a una concezione che si riferisce piuttosto a una costellazione di teorie differenti stratificate nella nostra memoria culturale e scientifica, nell’analisi del caso, è necessario un franco atteggiamento critico per contrastare la precomprensione teorica, che deriva da queste concezioni e conoscenze la cui solidità è quantomeno dubbia e datata.
Nell’indagine teorico-clinica sul caso, invece, il fuoco dell’attenzione è proprio sulla teoria sia nel senso degli asserti, che ci sembrano insufficienti e da criticare sia nel senso delle nuove formulazioni, che cerchiamo di vagliare per verificare se e come rendano conto del materiale clinico in esame.
Alla luce di quanto ho appena detto, distinguiamo, dunque, l’analisi clinica del caso dall’indagine teorico-clinica, in cui per esempio cerchiamo di verificare l’utilità di un concetto, (come potrebbe essere il concetto di vincolo), nella spiegazione del comportamento e del vissuto di Maria.
Per condurre un’analisi clinica del caso, di qualunque caso, è necessario:
- disporre scrupolosamente sul tavolo tutti i dati di cui disponiamo;
- riflettere sulle loro relazioni e sulla loro congruenza o incongruenza;
- osservare se in questo mosaico ancora informe di dati esistono lacune cioè se, a riguardo di punti importanti, manchiamo, per un motivo o per un altro, di informazioni;
- verificare se è possibile accorpare tutti i dati secondo un disegno coerente o, come è più probabile, per gruppi di dati che mostrano coerenza e parentela, osservando invece l’incoerenza tra gruppo e gruppo;
- Vedere se è possibile formulate un’ipotesi generale o parziale o se è possibile formulare ipotesi tra loro alternative;
- Avere a disposizione una bella riserva di punti interrogativi, che potremo e dovremo collocare, convenientemente e prudentemente, a ogni passo di queste operazioni successive.
a. I dati. Per poter disporre sul tavolo tutti i dati di cui disponiamo, è necessario avere presente nel modo più chiaro e preciso possibile la storia del soggetto. Concretamente bisogna disporre di una buona narrazione complessiva, che, in genere si può acquisire nei colloqui preliminari, cui occorrerà man mano aggiungere le acquisizioni successive. Per imparare ed esercitarsi all’inizio può essere utile scrivere ed è quello che in realtà si fa quando si deve portare un caso in supervisione. Dopo un certo allenamento però può essere sufficiente servirsi semplicemente di un foglio di carta in cui disporre per accenni i dati significativi servendosi di segni grafici per fissare le relazioni (frecce, parentesi, connessioni, frecce oppositive…). Se si tratta dell’analisi iniziale, questo sarà sufficiente. Se, invece, si tratta di ripresa di analisi del caso nel corso della terapia, sarà anche necessario tenere, per così dire su un altro tavolo, i dati relativi alla storia della terapia e i dati relativi alle caratteristiche della relazione terapeutica, osservando congruenze e incongruenze rispetto ai dati generali della storia del soggetto. Nel laboratorio di Verona in cui abbiamo studiato un singolo caso per quattro anni circa abbiamo continuamente confrontato i dati generali della storia di S e quelli man mano emergenti nella sequenza delle sedute, con le caratteristiche della relazione terapeutica e con quanto andava concretamente accadendo nella relazione.
Un ruolo particolare nella disposizione dei dati devono trovare:
- Traumi (e in alcuni casi di nevrosi più specificamente traumatica il trauma dovrà avere una collocazione focale!)
- Sequenze traumatiche
- Punti di svolta sia indicati dal paziente sia valutati o inferiti dal T.
- Vincoli sia superficiali sia, se è possibile, sottostanti.
b. Tono edonico e modulazione del vissuto
Un elemento assai importante da collocare come sfondo di questa costellazione di dati è la valutazione del tono generale dell’umore del paziente sia nel vissuto complessivo e globale (S si sente complessivamente gioiosa? Allegra? Serena? Triste? Depressa? Ansiosa? Insicura? In perenne conflitto?...) sia in rapporto a determinati accadimenti e quali. La sua valutazione si riferisce all’intero arco di vita oppure ci sono state delle differenze e, supponiamo, a uno stato dell’umore sereno, che è stato stabile per un arco temporale ne è seguito un altro che è stato stabile per un successivo arco temporale? Quando si sono verificati tali eventuali cambiamenti? In rapporto a quali avvenimenti o a quali modificazioni nello scenario naturale di vita?
A partire dallo stato generale dell’umore, S è capace di sperimentare stati emozionali positivi? Di apprezzarli? Di perseguirli attivamente? In quali ambiti? (valutazione della capacità edonica) oppure le esperienze tendono ad avere un colore e un sapore per lo più neutro e incolore, noiosamente insipido e poco soddisfacente? In questo caso S quanto e come è in grado di attivarsi per perseguire stati piacevoli?
Ancora a partire dallo stato generale dell’umore, nei casi di pesanti cadute in negativo o di possibili cadute in negativo S è capace di agire efficacemente ed attivamente per modulare tale stato negativo? in che modo? attrraverso quali attività? In questi casi, in che modo sa utilizzare la funzione riflessiva? instaurando un dialogo interno? mediante un esame di realtà? relativizzando? o cerca semplicemente di uscire dall’impiccio girando pagina o cercando un altro chiodo con cui scacciare il precedente?
c. Congruenza e incongruenza. E’ragionevole pensare che una persona che chiede una terapia abbia un vissuto di sofferenza relativo a problemi che riguarderanno la gestione di un qualche campo della sua esperienza personale, relazionale, lavorativa e che queste sofferenze rimandino a lacune, fratture, conflitti nella sua organizzazione e nel suo vissuto più o meno consapevole. Si può ragionevolmente presumere che indicatori importanti di tali fratture, lacune e conflitti siano le varie tipologie di congruenza\incongruenza che possiamo rilevare nella sequenza delle sue vicende e tra i dati e gruppi di dati che possiamo isolare nella nostra collezione.
Si possono distinguere diverse tipologie di congruenze\incongruenze:
- Congruenze\incongruenze interne alla “storia”riguardanti eventi, fatti e scelte del soggetto.
- Congruenze\incongruenze tra narrazione dei fatti e narrazione del vissuto
- Congruenze\incongruenze (denunciate o inferite dal T) tra gruppi di dati
- Congruenze\incongruenze tra “narrazione della storia”e accadimenti nella terapia
- Congruenze\incongruenze tra storia, accadimenti in terapia e relazione terapeutica.
d. I grandi parametri della vita psicologica.
La collezione dei dati, la tonalità di fondo dell’umore e la sua modulazione attiva o no da parte di S e infine questa prima organizzazione in termini di coerenza\incoerenza, potranno consentire una prima visione più sintetica da cui si potrà procedere con un ulteriore e più astratto livello di analisi che potrà essere realizzato, leggendo la storia del caso i dati e le varie tipologie di congruenze\incongruenze rilevate alla luce dei grandi parametri generali della vita psicologica e cioè:
- Attività-passività
- Interno - esterno
- Autonomia - dipendenza
- Autostima –autodisistima
- Depressione - euforia
e. Un disegno coerente?
Compiuto questo lavoro analitico potrebbe accadere, e in una parcentuale significativa di casi di più semplice lettura effettivamente accade, che si disegni spontaneamente un disegno verosimile (o verosimilmente coerente) del profilo di personalità in senso sia sincronico e relativo, dunque, all’organizzazione e al funzionamento attuale, sia in senso diacronico e relativo, dunque, alla linea di sviluppo, al “come S è arrivata a funzionare così”. Si dovrà comunque vagliare se questa linearità sia effettiva o sia soltanto frutto di un’analisi troppo superficiale e, dunque, sia dovuta alla quantità insufficiente di dati o a una lettura troppo “teorica”e semplificante. Se i dati sisponibili sono ragionevolmente completi e significativi - in virtù di una maggior trasparenza o di una maggiore capacità di autolettura e di narrazione del paziente e comunque di una più approfondita anamnesi - forse più che un unico e lineare profilo ipotetico si potranno invece disegnare due o tre possibilità di profilo la cui verosimiglianza e i possibili intrecci si dovranno vagliare con il procedere del lavoro.
In altri casi, anche dopo mesi di lavoro, potrebbe invece accadere che i dati restino disordinati ed eterogenei e non si riesca a far emergere un qualche disegno lineare. Sono i casi più complessi e problematici.
f. Ipotesi descrittiva (provvisoria)
Il passo successivo è quello di provarsi a formulare un’ipotesi descrittiva, che dovrà sempre essere considerata provvisoria, che potrà suggerire anche un’indicazione per l’azione terapeutica sia in termini di assetto interno del terapista sia anche in senso operativo nella scelta sequenziale del materiale su cui lavorare e sul modo in cui lavorarci.
La riserva dei punti interrogativi dovrà essere convenientemente e prudentemente utilizzata a ogni passo di queste operazioni successive.