L’ALLORA E L’ADESSO: Continuità psichica e continuità narrativa
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- Scritto da Gian Paolo Scano
Là, innanzi a noi, c’è un paziente. Pensiamo a Sara o a Giuseppe. Già dopo i primi colloqui, giungiamo a conoscere i fatti più importanti della sua biografia, i personaggi della sua famiglia, le scelte di vita, gli studi, il lavoro. Ci facciamo un quadro delle sue relazioni, dei problemi - soprattutto di quelli che lo hanno indotto a chiedere una terapia - eventualmente dei suoi sintomi. Oltre a questi dati, avremo anche una certa percezione del suo mondo interno, del suo paesaggio emozionale, delle sue modalità e difficoltà affettive e, oltre a queste valutazioni inferite dal suo raccontarsi, avremo, in maniera forse assai meno consapevole, anche una serie di impressioni derivate dal suo modo di proporsi, dai suoi atteggiamenti, dal modo di esprimersi, dalla sua immagine complessiva, dalla sua espressività mimica, dal suo concreto proporsi innanzi a noi. Presumibilmente avremo anche la disponibilità di un’altra serie di dati di diversa natura e cioè l’insieme delle risposte, consapevoli e non, suscitate nel nostro vissuto dai racconti e dalle nostre percezioni del suo raccontarsi complessivo. Potremo considerare questo primo mucchietto di percezioni e conoscenze come una sorta di “fotografia”, che, per definizione, sappiamo inadeguata, provvisoria, sotto molti aspetti anche ingannevole e comunque incompleta. Man mano che le sedute si susseguono molti aspetti della “fotografia” si precisano. Emergono eventi e personaggi nuovi che intervengono nella narrazione. Lentamente si definiscono meglio molti aspetti, ora l’uno ora l’altro, del suo profilo complessivo. Una relazione terapeutica, però, non ha uno scopo primariamente conoscitivo. Non lavoriamo per produrre una fotografia sempre più accurata e precisa, anche se naturalmente avviene anche questo. La sequenza dei racconti va a salti e a strappi, guidata dal concreto accadere (fatti, eventi, problemi, sogni, auto-percezioni, auto-valutazioni, stati d’animo…) e dal susseguirsi dei vissuti sia esterni che interni alla terapia. A margine di questo fluire il paziente porterà nuovi racconti o magari racconti differenti di eventi già raccontati, sogni, associazioni, ricordi, fantasie.
Ora il problema è: abbiamo un telaio o una cornice in cui disporre questi elementi più o meno coerenti e che tipo di nessi (fattuali? semantici? associativi? causali?) possiamo stabilire tra i vari elementi disposti nel quadro? Cosa ci autorizza, per esempio, a pensare che un certo evento accaduto, supponiamo, quando il paziente aveva due anni, possa avere qualche significativa relazione causativa con un tratto caratteriale o comportamentale del paziente o con un sintomo e che un determinato sogno, che interviene in una certa seduta, possa essere connesso a quell’evento e a quel tratto? Ancora meglio: supponiamo che in un certo frangente della terapia stiamo lavorando su un punto preciso, per esempio, su una caratteristica comportamentale e relazionale del paziente che, nel linguaggio condiviso con lui, chiamiamo “distacco” oppure “raffreddamento emozionale”, una tendenza che ricorda l’azione di quello strumento, divenuto indispensabile nelle grandi cucine, che chiamano “abbattitore”. Cosa ci autorizza a ritenere che un certo evento di quando egli aveva due anni, la nascita di un fratello quando ne aveva quattro, una malattia della madre quando ne aveva sette, un’osservazione espressa recentemente a riguardo del suo timore nel maneggiare aggeggi che hanno a che fare con l’elettricità, la frequente sensazione di calore e di sudore umidiccio, il sogno che ha appena raccontato … possano essere considerati elementi in qualche modo collegati e collocabili, quindi, nello stesso quadro in modo tale che si possano inferire nessi che ci spiegano il suo distacco e la sua tendenza a funzionare come un abbattitore?
Per Freud e, in generale, per la psicoanalisi sino agli anni ’70 il problema non si poneva. La teoria classica, infatti, poggiava sull’assunto della “continuità psichica”, che, anzi, a fronte dell’evidenza osservazionale della discontinuità della coscienza, diventava la vera prova del nove che giustificava l’asserto dell’esistenza di processi psichici inconsci (1). Su tale assunto era costruito l’apparato psichico, il cui primo e generale principio di funzionamento prevedeva che ogni eccitamento attraversasse l’apparato in direzione sia progressiva che regressiva - (da P a M e da M a P, nello schema del VII Cap.) - lasciasse una traccia indelebile e, dunque, almeno in teoria, recuparabile. Questa impostazione implica logicamente anche una concezione fissa e determinata del significato, perché come sottolineava Rapaport “il significato di un qualunque elemento del vissuto dovrà, infatti, situarsi e definirsi sulla base della continuità psichica, perché, quando ci chiediamo a proposito di un sogno o di un sintomo: “che significato ha?”altro non intendiamo dire se non: “in che modo questo sogno si adatta alla continuitàpsichica dell’individuo che lo ha sognato?”.
In questo quadro teorico l’analista poteva tranquillamente presumere non solo di avere una cornice in cui situare gli elementi man mano emergenti, ma, in virtù delle leggi di funzionamento dell’apparato, aveva anche un manuale che gli consentiva di stabilire la tipologia dei nessi, le modalità del loro funzionamento e persino una catena gerarchica di funzionamenti (meccanismi di difesa e sviluppo della libido), che gli consentiva di procedere strato dopo strato. In un certo senso non solo aveva la sicurezza di poter collocare gli elementi entro la stessa cornice, ma il suo lavoro mostrava una tendenziale somiglianza con il processo di ricostruzione di un puzzle, - per quanto si trattasse di un puzzle assai complicato, - o con uno scavo archeologico, secondo la metafora freudiana, in cui la statua, la colonna o il vaso stavano lì in attesa di essere scoperti ed esistevano a prescindere dal fatto di essere o no scoperti(2).
Oggi le cose sono assai cambiate. Abbiamo perso il “manuale” d’uso dell’apparato e del suo funzionamento ed è svanita anche la solidità della cornice della “continuità psichica”, che non è un dato osservazionale, ma un postulato esigito dalla struttura della teoria classica. La necessità di tale postulato, infatti, non è né assoluta né necessaria per ogni teoria psicologica. Lo è soltanto per una teoria, che, come quella freudiana, intenda costruirsi come naturalistica e deterministica e in cui, dunque, i significati possano essere considerati prevedibili in funzione di sequenze determinate di cause e di effetti, ciò che, in assenza di una determinazione cosciente, a causa della frammentarietà e lacunosità della coscienza, porta necessariamente a presupporre processi psichici inconsci per non interrompere la catena causativa deterministica.
E dunque che cosa ci può consentire di collocare entro la stessa cornice gli eventi della biografia di Sara o di Giuseppe, un evento successo una settimana fa, quel sogno vecchio di tre mesi e quello che mi ha appena raccontato? E sopratutto che cosa può garantirci che il “significato”di un evento di “allora”sia stato quello che noi gli attribuiamo “adesso” e che si possa stabilire un nesso tra quel “significato”e quello che attribuiamo a un tratto, a un comportamento o a un vissuto attuale? Se né la continuità psichica né l’ormai falsificato asserto secondo cui tutto quanto accade è registrato nella memoria dell’apparato reale (i dati sembrano suggerire che soltanto l’1% o poco più dell’esperito viene registrato nella MLT!) possono soccorrere la nostra fiducia nel poter considerare tutti i dati e tutte le comunicazioni di Sara o di Giuseppe come appartenenti allo stesso registro, a che cosa potremo rivolgerci?
Se corriamo al cassetto, in cui conserviamo le nostre vecchie foto, sappiamo che quel bimbetto di 6 mesi sorridente chissà perché, quell’altro un pò cresciutello di due con quello strano boccolo in cima alla testa, quel compunto ragazzino con la fascia da prima comunione e i primi pantaloni lunghi, quel ragazzotto sedicenne che sembra mimare un attore hollywoodiano, quell’altro più maturo, ma con l’occhio acceso dalla baldoria alcoolica del pranzo nuziale …testimoniano e fissano tutte frazioni temporali datate di uno stesso continuo Io-me. Sebbene non di tutte queste immagini conserviamo anche il “sonoro” del vissuto, che ci consenta di sentirci “dentro” al film, di cui quelle foto sono un fotogramma, siamo convinti che “quello ero\sono Io”. Allo stesso modo assumiamo che i fatti e i frammenti ricordati della storia di Sara si collochino in una continuità e appartengano alla stessa linea continua dell’Io-me di Sara. Questo, però, è un fatto più che altro di senso comune, la cui verità, per un verso certo innegabile, si dimostra tuttavia superficiale e assai falsificabile, come dimostrano cento e più anni di psicoanalisi. Del resto, per dare sostanza alla fragilità di questa dubbia convinzione è sufficiente correre a un altro cassetto, quello in cui conserviamo gli ingialliti quaderni dei nostri diari giovanili e le agende degli anni più maturi. Se apro una pagina a caso del mio diario del 1967 e comincio a scorrerla, posso avere la poco confortante impressione di trovare che leggere e capire un mio scritto di quando avevo 21 anni non è poi molto diverso dal leggere e capire una pagina del “Ritratto dell’artista da giovane” (Joyce) e che, dunque, quell’Io-me non è poi così…ovviamente …Io-me!
La letteratura non sembra dare molto peso a questo interrogativo, anzi, paradossalmente gli dava più peso prima degli anni ’60\70 quando ancora vigevano la continuità psichica e la completezza del database dell’apparato, che non dopo, quando il problema si è ufficialmente aperto. I motivi? La psicoanalisi è essenzialmente una pratica clinica e i clinici hanno poco tempo e poco interesse per l’indagine storico-critica e teorico-critica e, del resto, il soggetto che sta innanzi a me sulla poltrona o sdraiato sul lettino, è seduto o sdraiato sul sacco della sua storia e, anzi, “egli è la sua storia” sin dai primi casi clinici di Freud: egli é tutta la sua storia anche quella negata o rimossa. L’eredità storica (anche quella che mutua dalla continuità psichica), l’abitudine tramandata della pratica, il senso comune e magari anche il rumore di fondo di un essenzialismo mai morto, perché scritto profondamente nel sotto-codice della cultura occidentale, possono facilmente fornire la nebbia che può gentilmente esorcizzare i contorni del problema. Eppoi…c’è comunque …l’inconscio, che, ai molti servigi resi all’analisi clinica da fine ‘800 ad oggi, sembra aggiungere anche quella di poter fungere da terreno portante di una supposta, preconcetta, non detta, non definita, generica “continuità psichica”, sopratutto da quando il terreno dell’“inconscio” ha cominciato a meticciarsi con quello dell’“implicito”. Sembra infatti di cogliere sempre più frequentemente la convinzione che la distinzione tra “memoria implicita\esplicita”, possa facilmente con-fondersi con quella tra “esperienza implicita\esplicita” e questa sovrapporsi alla contrapposizione “verbale-non verbale”prestandosi a porsi come una formulazione post-energetica e “moderna” della processualità primaria e secondaria, (come in Loewald) in cui esplicito e verbale si sovrappongono a “conscio” e implicito e non verbale si sovrappongono a “inconscio” (o a almeno a “non-conscio” (3).
Operazioni di meticciato trasformista come questa non sono nuove. La psicoanalisi, infatti, nel rincorrersi delle concezioni e dei paradigmi ha sempre preferito ridefinire i suoi concetti, mantenendo fissa una forma di teoria, che, con la sua apparente invarianza, si presta amabilmente a garantire una immagine di coerente sviluppo e di continuità della disciplina (4).
In cerca di chiarezza e anche di semplicità torniamo al paziente che abbiamo supposto seduto o sdraiato innanzi a noi: il suo raccontare avviene nell’ADESSO, ma si riferisce per lo più e, sotto molti aspetti inesorabilmente, a un ALLORA prossimo o remoto. Noi, però, per collocare gli elementi del racconto e stabilire nessi tra i dati delle sue narrazioni e tra l’ADESSO e l’ALLORA, non possiamo contare sulla “continuità psichica” o sulla registrazione indelebile delle sue memorie e nemmeno sul suo generico “inconscio”. La cornice e il telaio di cui possiamo disporre è più labile perché costituita essenzialmente dalla semplice “continuità narrativa” o “biografica” che, però, è anche il luogo dell’auto-fraintendimento e dell’auto-inganno dal punto di vista della psicoanalisi. Sottostante alla continuità biografica c’è una più solida e obiettiva “continuità organismica”, che ci rassicura ancorandoci alla più generale legge della biologia secondo cui il biologico è essenzialmente storico, legge che ci induce a ritenere comunque, che, nella storia di Sara o di Giuseppe, l’ “ADESSO” dipende comunque dall’ “ALLORA”. Più solida ma assai poco praticabile in modo operativo perché il modo in cui si concretizza e realizza la dipendenza dell’ADESSO dall’ALLORA ci risulta oscuro e anzi il rapporto tra l’ALLORA e l’ADESSO è proprio il punto focale della teoria di cui avremmo bisogno, ma che sfortunatamento manca alla nostra cassetta degli attrezzi.
In termini molto generali, possiamo certamente stabilire che:
1. oggetto della teoria-teoria sono le leggi che regolano la determinazione dell’“adesso” da parte dell’“allora” in ragione delle regole di funzionamento del sistema orgaanismico-soggettuale. Un evento (traumatico o no), infatti può “organizzare” un comportamento nel senso che, detto alla grossa, può avere come esito un’inibizione o prescrizione nel comportamento del soggetto o può attivare risposte, che, a loro volta, possono delimitare un ventaglio di comportamenti o possono anche coattivamente prescriverne uno solo, ma ciò può dirsi appunto solo alla grossa. Una teoria dovrebbe formulare ipotesi operative sul “come” ciò avvenga. Se si volesse essere precisi, si dovrebbe dire che un evento, in realtà, non può “organizzare” un sistema; può influire sull’organizzazione del sistema impattando con i processi e le regole di relazione e organizzazione di quel sistema, che appunto dovrebbero essere oggetto della teoria.
2. Oggetto della teoria clinica sono, invece, le generalizzazioni di massima che l’osservazione della casistica consente di fare a riguardo delle classi di conseguenze che l’“allora” determina nella conformazione dell’“adesso” del sistema, sulla base delle regole di funzionamento della classe o sottoclasse dei sistemi complessivi in esame.
3. Oggetto del metodo è, infine, la ricerca delle procedure guidate da 2 e spiegate da 1 per modificare le conseguenze dell’“allora” sull’“adesso”.
Dopo un secolo e più di psicoanalisi e di psicoterapia, sappiamo molte cose su ognuno di questi tre punti, ma si tratta di conoscenze, inferenze, generalizzazioni e concettualizzazioni pertinenti a orizzonti teorici o falsificati (teoria freudiana dell’apparato), o parziali o discontinui o persino pertinenti a territori teorici disparati o mediati direttamente da ambiti non coerenti tra loro come accade per i dati delle neuroscienze o per quelli dell’infant research e della tradizione bowlbiana e neo-bowlbiana.
Con questo seppur scarno orientamento torniamo al paziente che abbiamo di fronte. In seduta, tra me e lui o lei, ciò che si passa è un flusso di narrazioni, che sono anche interazioni e narrazioni di interazioni, verbalizzate o no. Tale flusso, punteggiato dalle cesure delle sedute e da altre cesure, meno appariscenti, all’interno della seduta, non è oggettivato da un osservatore terzo, neutrale (quale potrebbe essere anche l’occhio di una telecamera), ma è invece “soggettivizzato” dal flusso dei vissuti dei due attori che lo vivono dal loro “interno”. Conseguentemente ogni narrazione è una costruzione soggettiva nel narrante e nell’ osservatore e contemporaneamente ogni interazione è una costruzione intersoggettiva dei due attori, infatti nell’analisi del flusso possiamo assumere, accanto al punto di vista soggettuale, anche un punto di vista intersoggettuale.
Sia partendo dal primo che dal secondo punto di vista, non dobbiamo aspettarci di cercare e trovare un ALLORA conservato immutato e immutabile in qualche angolino della mente o del cervello. Un tale allora non può essere né raggiunto né riesumato né modificato perché, come amavano dire i Greci, “i fatti non li possono cambiare neanche gli dei!”. L’ALLORA non è in un sacrario nascosto: l’ALLORA è nell’ADESSO attraverso le sue conseguenze che agiscono nell’ADESSO e, concretamente, è nei vincoli che l’ALLORA ha generato e che determinano l’ADESSO. I vincoli fanno sì che Sara non riproponga adesso un vissuto soggettuale, una configurazione relazionale, dei significati, delle intenzioni, delle immagini, delle emozioni di ALLORA e non costruisce intersoggettivamente con il terapista nessun ALLORA, ma vive ADESSO la configurazione relazionale, il significato, le intenzioni, le immagini, le emozioni di ADESSO, perché i suoi vincoli costruiti nei suoi ALLORA consentono di vivere questo ADESSO e non un altro. E’ in questo modo complesso che l’ALLORA determina l’ADESSO. In modo altrettanto complesso l’ADESSO può anche modificare l’ALLORA, non entitativamente e direttamente, ma attraverso NUOVI ADESSO che possono relativizzare o sminuire la forza dei vincoli creati dall’ALLORA mediante nuovi vincoli creati dall’ADESSO.
Per poter guardare correttamente a questa modalità complessa di determinazione dell’ADESSO da parte dell’ALLORA possiamo pensare a ciascuno dei due attori come a una totalità soggettuale, la cui azione complessiva è governata e modulata da una serie ordinata di filtri. Nel caso del terapista (partendo dall’alto) i filtri sono teorici, teorico-clinici, tecnici, personali (il più noto è quello che si chiamava “equazione personale” per la cui esplicitazione e autoconsapevolezza si richiede appunto l’analisi didattica) più in fondo poi gli analisti tendono a collocare, per abitudine secolare, quello cui fanno riferimento come l’“inconscio”. Se osserviamo il terapista, dando priorità al suo Io osservante, la pila dei filtri può essere elencata nell’ordine che è stato detto, se guardiamo a lui come totalità soggettuale interagente dobbiamo rovesciare la pila e partire dal basso: inconscio, equazione personale, tecnica, teoria clinica, teoria-teoria.
Guardiamo adesso a ciò che gli analisti chiamano appunto inconscio. Questo tradizionale “inconscio”, (che era concepito come una matrice di desideri, difese, fantasie variamente combinate per spiegare l’azione o la non azione di Sara o di Giuseppe e comunque i vissuti interni e privati), può essere operazionalmente inteso come una complessa rete di vincoli, che in vario modo determinano (o influiscono su) l’azione dei filtri soprastanti, per esempio attrraverso la percezione, la memoria, la selezione, l’attribuzione di importanza a questo o a quello elemento...
Un’immagine concreta dell’azione dei vincoli potremmo ricavarla grazie a un’analogia con un aggeggio ben conosciuto. La rete organizzata dei vincoli potrebbe funzionare, infatti, come un navigatore satellitare, come un ton-ton, che sulla base delle informazioni contenute nel suo data-base ti dice in ogni occorrenza se devi andare dritto, a destra o a sinistra o quale delle uscite devi imboccare a una rotonda. Il database del ton-ton è del tutto esplicito, scritto in linguaggio digitale nella pancia dell’aggeggio e può essere modificato man mano che cambia il territorio, per esempio quando venga introdotto un senso vietato o aperta una nuova strada. La rete dei vincoli del terapista di Sara o di Giuseppe, invece, non ha un database né conosciuto né conoscibile e questa è la differenza fondamentale tra la concezione che sto cercando di descrivere e la concezione tradizionale più o meno riformata, che continua a riferirsi all’”inconscio”. Il suo database è la risultanza del flusso degli eventi e dei vissuti che, man mano che accadevano nel tempo, fissavano i nessi tra percezione, valutazione emozionale, azione e\o inbizione, attesa, avvicinamento, fuga. La parte più superficiale del database può essere esplicitata e conosciuta ed è appunto l’equazione personale - (anche se per nessi recenti e particolari può essere del tutto conosciuto l’evento responsabile della fissazione del nesso, per esempio una indigestione può costituire il dato che mi impone di evitare un alimento!), - ma per il resto la rete dei vincoli funziona in modo automatico e del tutto inconsapevole per l’io osservante, che, nella situazione x, si trova a scegliere di “andare a destra” senza nemmeno rendersi conto che sta andando a destra e che il suo ton-ton gli ha imposto di andare a destra: l’alternativa, infatti, può semplicemente non solo non essere percepita, ma persino proprio “non esistere”.
L’imprinting “traumatico” della psicoanalisi fa sì che la più parte degli analisti ritenga che le fissazioni vincolanti avvengano e corrispondano punto a punto. E’ un problema empirico quello di stabilire se è possibile che un singolo evento “traumatico” possa generare un vincolo. In generale, però, il vincolo si forma essenzialmente per ripetizione (proprio perché pertiene alla memoria procedurale), ma la sua caratteristica più importante, dal punto di vista psicologico, è il suo funzionare come attrattore cioè il suo assimilare allo stimolo-grilletto tutti gli stimoli che hanno attinenza (realstica, simbolica, analogica o metaforica) con tale stimolo. Per un paziente che si presenta alla studio di un terapista, a parte casi particolari che si possono naturalmente verificare, ciò che sembra importante non è il singolo vincolo, ma il risultato del sistema complessivo delle reti di vincoli. Se facciamo riferimento al “distacco” del paziente, che funziona come un “abbattitore”, è più semplice pensare che un tale tratto comportamentale ed emozionale sia una caratteristica globale (in senso comportamentale e direi, ormai, caratteriale), che deriva non da singole svolte imposte dal ton-ton, ma è piuttosto il risultato complessivo di tante tante svolte, a tanti tanti livelli e a tanti tanti differenti incroci.
Tutto questo vale naturalmente sia per il terapista che per il suo paziente, anche se i due, sotto molti aspetti, si trovano su posizioni differenti per quanto attiene all’azione dei filtri soprastanti teorici, tecnici, e personali ecc. In ogni caso si trovano su posizioni del tutto altre rispetto ai corrispettivi sistemi di vincoli costruiti da ciascuno di essi nella loro deriva storica. Se, dunque si considerano i due attori da questo punto di vista, avremo che le loro interazioni saranno in qualche modo “controllate” dalle due corrispettive reti di vincoli e che il fluire delle loro interazioni si disegnerà secondo una trama che ognuno di essi leggerà, sia dal punto di vista dell’Io osservante che da quello della totalità narrante (me-narrante), secondo il profilo del proprio canovaccio.
Sin qui abbiamo considerato nell’interazione complessa tra i due soggetti, l’azione di ogni singolo soggetto come un processo intra-soggettuale; la loro interazione però è analizzabile anche come un processo inter-soggettuale. Da questo secondo punto di vista, ogni interazione intersoggettiva può essere denotata come una “costruzione intersoggettiva”, il cui risultato, in termini di significato, di intenzionalità e di effetto, non è riducibile al significato e all’effetto intenzionale dei due processi intra-soggettivi. Questa analizzabilità in termini di “costruzione intersoggettiva”costituisce la vera sostanza di una concezione intersoggettuale, ma l’inferita costruzione intersoggettiva, esattamente come già detto per l’azione soggettuale, non costruisce un ALLORA ma soltanto un ADESSO. Tale adesso ha ceramente più di un rapporto con l’ALLORA dei due attori, ma in ognuno di essi, nella deriva della propria personale storia e nel contesto della personale narrazione di quanto sta accadendo ADESSO. L’effettiva “costruzione intersoggettiva” (sia considerata in generale sia considerata invece nei singoli episodi) sarà sempre “quella che sta effettivamente accadendo”in forza dei rispettivi vincoli e non è determinata dalla intenzionalità consapevole dei due attori, anche se ciascuno di essi si sforza di modellare questa trama in modo consapevole e lo fa essenzialmente attraverso le narrazioni dell’io osservante, che si racconta e racconta ciò che accade.
NOTE
[1]La discontinuità della coscienza è un dato osservazionale, mentre la continuità psichica non è un dato, ma un postulato, che, fornendo la staffa necessaria all’affermazione dell’esistenza di processi psichici inconsci, funge da leva di Archimede dell’intera costruzione teorica. È, infatti, la continuità psichica a rendere logicamente necessaria l’esistenza di processi psichici inconsci. Sarà Rapaport, nell’ambito della sua riflessione metodologica, a evidenziare questa implicazione, affermando senza mezzi termini che l’esistenza di processi psichici inconsci si fonda sul postulato della continuità psichica e che questa, a sua volta, deriva logicamente dalla scelta di costruire una scienza deterministica dei processi psicologici: “Se si presuppone che nella vita psichica tutto sia determinato niente sia accidentale, allora si è semplicemente detto che si vuole costruire una scienza, cioè una scienza nomotetica e niente di più. La forma assunta dal determinismo costituisce uno specifico postulato. Qui assume la forma della continuità psicologica, cioè ci sono certe leggi se si conosce la funzione psicologica come un livello emergente dello sviluppo. Se c’è un nuovo insieme di leggi emergenti, la psicoanalisi dice che vi sono un determinismo e una continuità perfetti. In effetti la continuità psicologica è la forma che un perfetto determinismo assume nel materiale psicologico se studiato mediante il metodo clinico” (Rapaport, 1944-1948)
[2] Freud mancava della nozione moderna di soggetto e di un punto di vista organismico in grado di garantire dal basso l’unità bio-fisio-psicologica del soggetto (Scano, 2008a, 2010). Questa carenza lo obbligava, da un lato, a trovare incongrua e inaccettabile l’idea di una serie interminabile di stati di coscienza sconosciuti a noi stessi e gli uni rispetto agli altri, – idea che, invece, è centrale nelle moderne teoria della coscienza, – e, da un altro lato, lo metteva nella necessità di garantire l’unità dell’organismo con il ricorso alla continuità psichica e all’unità sequenziale dei contenuti psicologici. Ciò gli consentiva certo di superare la discontinuità della coscienza e di contare su una catena causativa continua adeguata all’impianto deterministico della teoria fisicalista, ma al prezzo di dover garantire in termini psicologici, e dunque dall’alto, la necessaria unità dell’organismo. Questa soluzione finisce per delegare allo psicologico, e dunque a una parte, una funzione che logicamente dovrebbe essere attribuita alla totalità, ma soprattutto scava un baratro epistemologico alla radice stessa della costruzione teorica. Essa attribuisce, infatti, ai processi psichici inconsci la stessa struttura formale dei processi consci, facendone l’analogo dei desideri, delle fantasie e dei pensieri consapevoli, ponendo in tal modo il problema della natura dello psicologico e della sua relazione con il non psicologico e lasciando lo spazio a un sotterraneo cartesianesimo di ritorno.
[3] La nozione ricorrente di “inconscio implicito”, che consegue da queste equiparazioni sembra assai equivoca. Non per il suo significato proprio, ma per l’uso “implicito” che ne fa, frequentemente e forse involontariamente, chi lo usa. Certo, apparentemente, l’espressione non fa che spendere nel discorso analitico e magari nel contesto di una revisione dell’inconscio freudiano (ciò è più chiaro nella nozione parallela di “inconscio non rimosso”) le risultanze relative alla memoria dichiarativa e procedurale, alla embodied cognition, alla narrativa emozionale ecc. Il fatto è però che l’unica cosa in comune tra quei dati e generalizzazioni di dati e il concetto tradizionale di inconscio è la caratteristica descrittiva e fenomenologica della non consapevolezza, cioè quella che Freud indicava come inconscio descrittivo. Una caratteristica, dunque, del tutto estrinseca, perchè la “qualità” inconscia di questi processi o di questi vissuti (necessariamente inferiti) ha una parentela assai impalpabile con l’inconscio freudiano
[4]A ben guardare, tuttavia, tale immagine appare come una sorta di vestito cucito in un tessuto di termini e concetti, che, disancorato ormai da una teoria definita, ha, man mano, sotto la spinta di un invincibile trasformismo, progressivamente cambiato i suoi significati sino a costituirsi come una sorta di lingua rituale, che nessuno più comprende e a cui può essere conferito qualsivoglia significato. “Intrapsichico” , “psiche”, “rappresentazione”, “inconscio”, “Io”, “rimozione”, “transfert”, “identificazione”, “difesa”, “oggetto”... diventano così delle parole-funzione, il cui valore non è più codificato e che ognuno può utilizzarle a piacere. Questa rottura del contratto semantico finisce per rendere irrilevante gran parte della letteratura, che assomiglia sempre di più a una sorta di mondo di Alice in cui ognuno può sentirsi padrone delle parole, ma in cui, purtroppo sembra che le parole non abbiano più un padrone.
LA FACCIA NASCOSTA DELLA LUNA
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- Scritto da Gian Paolo Scano
Scorrendo la letteratura psicoanalitica ci s’inbatte frequentemente in un mucchietto di concetti che, pur eterogenei tra loro e riferiti ad ambiti teorici e a periodi storici differenti, mostrano, tuttavia, un'indefinita\indefinibile parentela. Una breve lista non esaustiva potrebbe elencare: “comunicazione inconscia”, “percezione inconscia”, “capacità (dell’analista) di leggere l’inconscio”, “apparato per pensare i pensieri”, “esperienza emozionale correttiva”, “nuova esperienza emozionale”, “empatia”, “identificazione proiettiva”, “sintonizzazione emotiva”, “co-costruzione della realtà”, "costruzione intersoggettiva", “enactment”…
Disparati ed eterogenei si somigliano in un punto: allusivi, sfuggenti, indefiniti e per nulla operativi, evocano profondi processi misteriosi. A dispetto della loro vaghezza nascono dalla pratica clinica, da cui traggono indiscussa fortuna. E’ ai clinici, infatti, che essi appaiono profondi e concreti, capaci di esprimere un livello essenziale dell’esperienza, che sfugge allo sguardo freddo delle teorie. Si potrebbe dire, forse, che ai loro occhi essi rivelino una “faccia nascosta della luna”, una faccia nascosta della psicoterapia, inesprimibile o inespressa delle teorie.
Questi concetti condividono, però, anche una più concreta caratteristica: si riferiscono tutti ad un qualche tipo di transazione, scambio o interazione tra soggetti anche se, spesso, in modo indefinibile e\o indefinito o persino contemporaneamente affermato e negato come nel caso dell’ identificazione proiettiva.
Una facile congettura è che tali formulazioni allusive diano voce a uno spazio poco accessibile alle teorie correnti proprio a causa di questo rinvio alla transazione e allo scambio. Nata con un profondo imprinting naturalistico, la psicoanalisi tende, infatti, a spiegare il vissuto e l’azione tramite i meccanismi interni di un oggetto osservato, sia quando si pone come teoria dell’apparato sia quando si pone come teoria del mondo interno. Da questo punto di vista, le formulazioni allusive colmerebbero una lacuna del punto di vista, incapace di cogliere la faccia nascosta della luna, dando voce alla necessità di chiamare in causa agenti o fattori sconosciuti alle teorie tradizionali.
Ci sono altri due ambiti, di cui uno del tutto estraneo e, il secondo, tradizionalmente in una posizione spuria rispetto alla psicoanalisi, che sembrano poter fare riferimento allo stesso ambito inafferrabile di fattori. Si tratta del placebo e della suggestione.
Il primo è stato una vera maledizione per la ricerca in psicoterapia in quanto è impossibile identificare un placebo per la psicoterapia, ma sta diventando una croce anche per quella neuropsicofarmacologica. Qualche tempo fa Marco Casonato notava che “…il placebo farmacologico in psichiatria non riesce ad essere neutro neppure negli studi effettuati in doppio cieco” e, soprattutto che “…l’effetto placebo risulta imbarazzante per la sua efficacia paragonata a quella delle molecole con cui viene confrontato. Nel caso della depressione l’effetto placebo fornisce risposte un poco al di sopra del 30%, laddove i farmaci specifici si attestano su un modesto 40%”. Egli sotttolineava, infine, che “ciò che è peggio è che pare che l’effetto placebo stia aumentando nei soggetti anno per anno per ragioni ancora oscure”. E, dunque, quale sarà il principio attivo del placebo e che strana magia potrà mai agire nella somministrazione di uno zuccherino in un contesto clinico? Non sarà l’effetto di un nascosto, misterioso fattore attivo in tutte le situazioni di cura o, magari, persino in tutte le interazioni tra soggetti? Non si tratterà forse di qualcosa che abita la faccia nascosta della luna? Qualcosa che rivela una proprietà segreta dell’interazione, che, chissà, ha persino a che fare con la suggestione?
Freud escluse attivamente la suggestione dalla psicoanalisi, che contrappose alle pratiche terapeutiche suggestive. Gill, però, riconoscendo che nell’analisi è attiva una componente ineliminabile di suggestione, riteneva che essa debba essere analizzata e tale analisi farebbe la differenza tra la psicoanalisi e le terapie non psicoanalitiche. Ma è possibile analizzare una suggestione all’interno di una situazione suggestiva senza che l’analisi della suggestione diventi essa stessa una meta-suggestione? Setting, transfert, interpretazioni, analisi dei sogni non sono, forse, pratiche ritagliate nella materia sconosciuta di una irridente suggestione? Il “principio attivo del placebo” e il “principio attivo della psicoterapia” non potrebbero essere variazioni di questa “sostanza della suggestione”?
Forse, placebo e suggestione rimandano anch’essi all’altra faccia della psicoterapia, come “comunicazione inconscia”, “capacità (dell’analista) di leggere l’inconscio”, “apparato per pensare i pensieri”, “esperienza emozionale correttiva”, “nuova esperienza emozionale”, “empatia”, “identificazione proiettiva”, “sintonizzazione emotiva”, “co-costruzione della realtà”, costruzione intersoggettiva, “enactment”.
Quando finalmente l’occhio neutro di una fotocamera riuscì a sbirciare per la prima volta la faccia nascosta della luna ci si avvide che essa, butterata e pietrosa, non differiva da quella intravista dal cannocchiale di Galileo, tanto inviso agli aristotelici. Per l’altra faccia della psicoterapia potrebbe non essere così. Magari tra le pieghe di quella faccia non vista potrebbe annidarsi la soluzione dell'enigma misterioso e inquietante del “verdetto di Dodo”, quello che stabilisce che tutte corrono e tutte hanno diritto al premio perché tutte godono di pari efficacia. Magari nell’altra faccia delle psicoterapie non vige il semplice dominio delle leggi che regolano l’azione del soggetto, ma quello delle leggi che governano l’interazione tra soggetti.