PER UNA TEORIA DELL’INTERAZIONE TERAPEUTICA. Quadro sintetico: assunti, asserti, ipotesi
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- Scritto da Gian Paolo Scano
* testo presentato al Lab 2.0 di Verona il 20. 05. 17.
La teoria classica dell’apparato psichico (metapsicologia), su cui poggiano la teoria clinica e la concezione tradizionale del metodo analitico, è da considerare falsificata sin dagli anni ’70 in seguito alle analisi storico-critiche e teorico-critiche dei rapaportiani e alle acquisizioni delle neuroscienze sulla struttura e funzionamento del cervello reale. Ho argomentato altrove questo dato difficilmente controvertibile (Scano 1995, 2013, 2015). Il mondo psicoanalitico evitò di prendere atto del venir meno della sua base fondante e, dopo una prima indignata difesa a oltranza della teoria pulsionale, ha preferito enfatizzare il ruolo della teoria clinica e obliterare l’intera questione della teoria generale, sino a negarne necessità e consistenza (Wallerstein,1988). La più parte del mondo psicoanalitico ha così continuato, seppure con aggiustamenti e riformulazioni compromissorie (Scano, 2016), a legittimare l’azione clinica con l’armamentario concettuale della teoria classica (processi primari, rimozione, proiezione, identificazione, fantasia inconscia, transfert…) e con una sostanziale fedeltà al metodo fondato sulla triade “interpretazione → insight → cambiamento”. Tutto ciò in nome di una malintesa, irrinunciabile fedeltà a Freud, che mal si coniuga con qualsiasi metodologia e intendimento scientifico. Il risultato di questa inerziale e sorprendente deriva storica è che, di fatto, la psicoanalisi può essere considerata, oggi, una pratica clinica priva di un’effettiva teoria.
Il lavoro svolto dal “Laboratorio”, dapprima a Brescia e successivamente a Verona, partiva, invece, dall’accettazione della falsificazione della teoria classica e dalla conseguente necessità di lavorare alla costruzione di una nuova teoria. Quel lavoro quasi trentennale non ha certamente cavato dal capello il coniglio della nuova teoria generale. Ha portato però a una visione complessiva, alla delimitazione di un territorio e a una prima descrizione argomentata del campo, in cui una tale teoria potrebbe costruirsi (Scano 2013, 2015).
In questo breve testo mi ripropongo di riassumere le linee essenziali di questa prospettiva mettendo in fila, per punti e in sequenza: gli assunti generalissimi, le linee essenziali di una teoria dell’interazione terapeutica, i necessari rimandi a una teoria del soggetto e, infine, le ipotesi-guida del metodo di intervento.
a. Assunti generalissimi
L’impostazione generale della concezione freudiana della teoria e del metodo poggia necessariamente sull’epistemologia e metodologia proprie della filosofia della scienza di fine ‘800: positivista, dunque, e, per di più, nella sua più rigida accezione fisicalista. Pur con il suo oggetto “psichico”, così difforme da quello delle scienze della natura, essa si costruì nel campo dell’oggettualismo naturalista, partendo da un’epistemologia dell'oggetto osservato che istruiva una tecnica causativa in senso lineare. Questa caratterizzazione epistemologica fu favorita non poco dalla derivazione della nascente psicoanalisi dall’ambito medicale e dall’inevitabile attrazione di quel modello nel più generale processo di medicalizzazione della malattia mentale e della sofferenza psicologica, che caratterizzò la psichiatria del XIX secolo.
Rompendo drasticamente con questa desueta e lontana eredità, gli assunti generalissimi che possono istruire una visione moderna della teoria e del metodo sono tre:
1. L’ambiente ecologico, etologico e culturale, in cui vive, respira, pensa, agisce, opera, si auto-costruisce, auto-sperimenta, auto-percepisce e auto-esprime Homo Sapiens è caratterizzato dalla pervasiva e basica intersoggettività che informa e conchiude la sua “natura prima” biologica, formattandola in una sua specifica e peculiare “natura seconda” (Scano, 2013, 2015).
2. L’interazione terapeutica é di conseguenza essenzialmente intersoggettiva, irriducibile allo schema naturalistico lineare Soggetto\Oggetto // Osservatore\Osservato e tale da esigere uno schema circolare complesso in cui un soggetto osservato osserva → un soggetto osservato che osserva (Scano 2013, 2015).
3. Un cambiamento voluto potrà prodursi soltanto all’interno di tale irriducibile e complessa circolarità (Scano, 2000, 2006a).
b. L’interazione come oggetto formale di una teoria dell’interazione terapeutica
In questo quadro dichiaratamente organismico, evoluzionistico, intersoggettivo e complesso l’oggetto formale della teoria del trattamento non può essere né la freudiana “mente (relativamente) isolata” del soggetto-osservato né la “mente in relazione in senso debole”, degli “intersoggettivismi” attualmente prevalenti. Assumiamo invece che le interazioni tra un T(erapista) e un P(aziente) si auto-organizzano, in un sistema complesso (SISTEMA T\P) nel quadro delimitato e definito dalle regole del setting prescritto. Il sistema T-P non è tuttavia regolato dalle regole del setting, (che si limitano a fissare, circoscrivere e disegnare il campo), né genericamente da quelle di ciascuno dei due soggetti. Il sistema è governato invece dalle regole grammaticali e sintatiche proprie di ogni accoppiamento strutturale tra due “io” nella specificazione concreta istruita dalla narrativa culturale, biografica e personale dei due soggetti in interazione.
(NB. La nozione di “accoppiamento strutturale” (Maturana, Varela, 1985) è usata in biologia per indicare la relazione di congruenza strutturale tra un organismo e l’ambiente, in cui si realizza la sua ontogenesi, o quella esistente tra più unità cellulari, che si aggregano a formare una unità pluricellulare o, ancora, quella che si stabilisce quando due o più organismi si trovano nel corso della loro ontogenesi a costituire (a essere immersi in) una rete di interazioni ricorrenti e stabili sino a formare sistemi o unità di un livello ulteriore e specificamente “sociale”).
Ne consegue che:
- L’interazione e il sistema di interazioni, che in quanto sequenza di eventi costruiscono una storia e in quanto sequenza di eventi narrati costruiscono una narrativa, è ciò attraverso cui si realizza il cambiamento. L’interazione tra T e P si pone, dunque, come l’effettivo oggetto formale della teoria (Scano, 2006a);
- Il processo, attraverso cui si realizza il cambiamento voluto, non è governato dalle regole del “setting prescritto”, ma da quelle più sotterranee del “setting reale”, che si stabilisce e auto-costruisce nel fluire dell’interazione tra le rispettive catene di vincoli dei due soggetti nel quadro più generale della grammatica e sintassi di ogni accoppiamento strutturale e nella scena spazio-temporale del setting prescritto;
- Ogni interazione ha una duplice valenza: a) in quanto evento e storia (interazione); b) in quanto evento narrato (meta-interazione). Ogni interazione deve essere dunque considerata da punto di vista interattivo e meta-interattivo. I due punti di vista definiscono due differenti domini e due differenti campi di variabili: il dominio delle variabili interattive e il dominio della variabili meta-interattive. Le prime sono proprie di ogni interazione tra soggetti, le seconde caratterizzano l’interazione in quanto “terapeutica” e definiscono i fattori specificamente tecnici e clinici (Scano, 2006a, 2013);
- La proprietà fondamentale dell’interazione è che essa avviene e non può essere cancellata o modificata da una successiva meta-interazione, che la può tradire o falsare, ma non rendere non avvenuta, contemporaneamente, però, essa non può essere colta e raccontata, a se stessi o a un altro, se non tramite una operazione meta-interattiva;
- La proprietà fondamentale della meta-interazione, invece, è che essa implica sempre e comunque un’interazione a prescindere dall’intenzionalità dell’agente. Un’interpretazione, ad esempio, al di là del contenuto, interviene come azione con suoi propri significati, che non sono necessariamente quelli previsti o voluti dall’interpretante;
- La simmetria speculare delle due leggi essenziali dell’interazione e della meta-interazione prescrive per ogni interazione terapeutica una logica invincibilmente circolare. T nella sua azione clinica e tecnica, si colloca tendenzialmente dal punto di vista esterno (meta-interazione) situandosi in una posizione analoga a quella del biologo, che studia la lumaca e seguendo una logica lineare. Egli tuttavia, consapevolmente o no, è contemporaneamente immerso nella situazione intersoggettiva, in cui si muove, interagisce e conosce secondo una posizione e un’epistemologia autonoma sia in quanto soggetto interagente sia come sottosistema del sistema complessivo T\P. Benché assuma, infatti, un punto di vista esterno (rispetto alla diade, al paziente e a se stesso), sotto molti aspetti analogo a quello dell’osservatore-scienziato, egli si trova, tuttavia, inesorabilmente collocato all’interno per quanto attiene a se stesso e per quanto attiene alla diade così che funziona, consapevolmente o suo malgrado, secondo la logica circolare propria di ogni interazione intersoggettuale (Scano, 2006a, 2013);
- T non può cambiare P per causalità lineare diretta o di contatto (salvo per aspetti relativi a conoscenza di dati e apprendimento di procedure). Il cambiamento voluto dovrà conseguentemente essere inteso come il risultato di una processualità complessa e come possibilità emergente nella co-evoluzione del sottosistema P nell’ambito dell’evoluzione e ri-organizzazione complessiva del sistema T\P;
- Il sistema T\P, come tutti gli organismi e i sistemi di organismi, ha una specifica epistemologia autonoma, interna, cioè il suo proprio modo di conoscere\cambiare, ma è passibile di studio da un punto di vista esterno e a partire da una epistemologia eteronoma.
c. I sottosistemi P e T:
La psicoanalisi classica, a causa dei già ricordati vincoli epistemologici e storico-culturali , non poteva dotarsi di una vera, esplicita teoria del soggetto, che era suffragata da una meccanicistica “teoria dell’apparato” (la “macchina” psichica che “produce” il comportamento), cui di solito si fa riferimento con il termine di metapsicologia. Essa istruiva e giustificava la teoria clinica e la teoria della tecnica. La falsificazione della teoria dell’apparato avrebbe dovuto aprire la strada alla formulazione di una più coerente teoria del soggetto, cui, seppure in modo ambiguo e non dichiarato, sembravano tendere le formule spesso confuse della galassia teorica nota come relazional-oggettuale. A oggi, non sembra potersi intravedere all’orizzonte una compiuta e condivisa teoria della soggettività. La costruzione di una tale teoria non è compito di una teoria del trattamento, che tuttavia deve necessariamente farvi riferimento dato che T e P sono sistemi intersoggettuali/soggettuali, che formano un sistema intersoggettuale/soggettuale. Ho descritto altrove le linee generali di una possibile teoria del soggetto (Scano, 2015, pp.159-301). Qui ci si può attenere a questi sintetici assunti e asserti essenziali:
- La soggettualità nelle sue molteplici realizzazioni, da quella elementare del batterio o del paramecio sino al modo “umano di essere un soggetto”, è il format generale della vita in questo pianeta. Disponendo di un cervello-che-costruisce-una-mente, homo realizza la sua soggettualità auto-riflessiva e auto-cosciente con la costruzione di un “Io della mente” (Scano, 2008, 2013, 2015).
- L’io della mente, in ultima analisi, è la capacità di distinguere nell’osservazione l’osservatore dall’osservato, sapendo svolgere contemporaneamente il ruolo dell’osservatore e dell’osservato (Scano, 2015). Tale capacità divenne possibile con l’acquisizione del linguaggio flessibile, che comparve, sembra, tra i 100.000 e i 50.000 anni fa.
- La soggettualità non nasce in un luogo virtuale o sostanziale (mente, anima...) ma in un corpo cui il cervello “pone mente” (Damasio). La mente è la “mente del corpo”. Cfr. Scano, 2015.
- A partire da queste premesse il soggetto appare come l’aprirsi di un punto di vista e di un irripetibile punto di osservazione nell’orizzonte eco-eto-intersoggettivo umano, da cui guardare, osservare e costruire il suo mondo. La persistenza nel tempo del punto di vista, della prospettiva e delle narrazioni, grazie alla memoria e al flusso continuo del racconto, fa emergere il protagonista della biografia: l'io-me. L’Io (la soggettività) nasce, dunque, nell’intersezione di un organismo con l’intersoggettività e si auto-costruisce come interfaccia tra l’unità dell’organismo e la totalità dell’universo intersoggettivo e “oggettivo”(ib.).
- Tale interfaccia ha un suo punto di gravità interno, epistemico e narrativo (biografia narrata) e una sua postazione osservazionale, che con l’esercizio dei processi organismici costruisce un irripetibile Io-me. Conseguentemente, la soggettività può essere descritta come l’intersoggettività osservata, incarnata da un soggetto che si osserva, costruisce e organizza affidando il mantenimento della propria coerenza operazionale nell'ambito semantico, linguistico, sociale e culturale a ciò che indichiamo come Io o come l'ambito di esperienza di un organismo che, guardando alla continuità sequenziale dei suoi vissuti, utilizza il pronome "io" per designare il protagonista di tale biografia come agente attivo o passivo delle azioni indicate da tutti i verbi che ha usato e userà in prima persona.
- Da questo punto di vista il me, come coscienza globale del corpo e dell’intero organismo, è essenziale per l’Io, per il quale, invece, è essenziale il linguaggio, che, promuovendo l’io a soggetto della frase, veicola il me come soggetto dell’azioneoggettivandolo nell'auto-coscienza (ib.).
- L’Io della mente, da un lato, è effetto e conseguenza dei processi, dall’altro, grazie al meta-posizionamento consentito dal linguaggio, è un osservatore, che si delimita dall’ambiente e si racconta gli eventi, guidandoli attraverso l’azione intenzionale (ib.).
- L’io si costruisce tramite regole di costruzione valide per tutti i membri della specie Homo. Tale sistema di regole è determinato a) dalla struttura e dal funzionamento del cervello; b) dall’ambiente fisico in interazione con il quale tale cervello si è evoluto; c) dall’ambiente umano in cui insieme alla evoluzione stessa della specie sono co-evoluti l’ambiente umano e il cervello umano; d) dalle strutture specifiche dell’ambiente antropizzato, in cui evolve ogni cucciolo di sapiens.
- Ogni particolare "Io della mente", pur costruito secondo regole universali, costituisce una singolarità, che si differenzia da ogni altra in virtù della storia particolare propria di quel singolo soggetto nel contesto sociale, geografico, storico e culturale in cui nasce e si svolge la sua esistenza.
- I mattoni essenziali di cui si compone ogni Io sono: la memoria, le emozioni, il sistema di regolazione emotiva, l’auto-etero regolazione guidata da tale sistema, la costruzione di mappe e schemi di azione, il linguaggio, la giunzione tra l’Io linguistico e il Me corporeo, l’attitudine metaforica nel quadro dell’insieme delle conoscenze che mutua dall’ambiente e che per lo più ha ereditato dagli “io” che lo hanno preceduto (ib.).
- La costruzione dell’io della mente coincide in gran parte con l'organizzazione del sistema intenzionale, che procede con lo sviluppo delle emozioni secondarie e dei sentimenti dallo spettro delle emozioni primarie. Tale sviluppo avviene con la formazione di vincoli, cioè con lo stabilirsi di nessi stabili tra uno stato del corpo esperito e uno stimolo in entrata. Le interazioni con stimoli percettivi e, in generale con situazioni, persone, eventi e oggetti, vengono categorizzate nei termini della loro conseguenza somatica ed emozionale. Ogni soggetto consta, dunque, di una enciclopedia di nessi emozionalmente marcati, fissati nella memoria del vissuto, tra stati del corpo positivi o negativi ed eventi, accadimenti, scenari, situazioni, esiti, che anticipa il risultato emozionale di un’eventuale interazione con tali eventi, soggetti, oggetti, e situazioni. La disponibilità in linea di questi nessi marcati funziona come un filtro di previsione\valutazione e consente una continua attività di attribuzione di significato e di anticipazione per evenienze che, in quanto tali, sarebbero imprevedibili per il genoma, funzionando come incentivo, campanello di allarme o segnale di stop (Scano, 2008c, 2013, 2015).
- Questa griglia di valutazione e lettura degli stimoli, eventi e configurazioni, (ma anche dell’esito anticipato delle azioni stesse dell'organismo) esplora e valuta a tutto campo l'orizzonte del soggetto e ne modella l’intenzionalità. Questa sottostante attività corporea di significazione, che anima intenzioni, motivazioni e azioni, costituisce il sostrato narrante nella tessitura dell’Io della mente. Così, se osserviamo dal basso la costruzione dell’Io nella complessiva organizzazione organismica, possiamo identificare e distinguere una totalità narrante, a indicare che tutto quanto è io-me è effetto dei processi globali dell’ organismo e un vissuto narrato a indicare che, contemporaneamente, tutto quanto è io è opera di narrazione e linguaggio. Si può indicare il primo punto di vista come totalità narrante, il secondo come Io narrato (ib.).
- Momento cruciale di tale costruzione è la giunzione tra l’io narrato (il personaggio e l’autore delle narrazioni) e il “me corporeo". Tale giunzione avviene nel contesto biologicamente e culturalmente vincolato della situazione di accudimento che indirizza, organizza, governa e realizza l’innesto tra processi e linguaggio, coniugando corporeità e soggettività con la formazione dell’Io della mente, che si costruisce nell’accoppiamento strutturale. Il rapporto bimbo-madre anticipa, esemplifica, indirizza e realizza l’aggancio tra i processi organismici somaticamente percepiti dal bimbo e il linguaggio nel persistente e continuo intrecciarsi del processuale, corporeo, emozionale e azionale relazionarsi del bimbo e del corporeo, emozionale, azionale, linguistico-verbale e culturale relazionarsi della madre (ib.).
- Questa giunzione si realizza grazie al flusso linguistico-narrazionale della madre, che incessantemente narra, (in prima, seconda e terza persona) le gesta, le azioni e i vissuti del il bimbo, che parallelamente sperimenta per via corporea quanto la madre narra in parole. Questa reiterata interazione realizza una sequenza ininterrotta di frasi azionali, in cui il bimbo è posto come soggetto di una frase, in cui il verbo è rappresentato dal concreto agire del bimbo e il soggetto dal suo vissuto corporeo, progressivamente segmentato dalla narrazione materna attraverso la costante lettura delle espressioni sensoriali, emozionali e azionali e il rimando sia al codice linguistico e culturale sia al suo stesso codice corporeo emozionale. Per esempio, “Maria mangia o sorride o piange”, detto in lingua nella narrazione materna, si pone come una frase-azione, in cui il soggetto è il flusso segmentato del vissuto corporeo, corrispondente al mangiare, sorridere e piangere, mentre il verbo è l’effettiva azione compiuta del sorridere, piangere o mangiare, vissuto e percepito dall’interno e dal basso. In questi verbi-azione-frase, cioè, le sensazioni e gli stati del me si connettono nel raccontare della madre alle posizioni formali del soggetto e dell’oggetto mentre lo stato interno del bimbo è connesso al soggetto e all'oggetto tramite la mediazione delle cose dette e indicate all’’interno di un’anticipazione corporea della struttura formale della frase (ib.).
- L’ organizzazione del sistema intenzionale (consapevole e inconsapevole), che costruisce i significati e innesca l'azione del soggetto, è regolato da una grammatica neuro-biologica e da una sintassi intersoggettiva. La grammatica è costituita dal funzionamento della coppia piacere/dolore e dalle reazioni del sistema delle emozioni primarie, che automaticamente attribuisce un significato corporeo agli eventi, connotando secondo regole fissate dall’evoluzione i valori primari del piacere, del dolore, della paura, della rabbia, della gioia, della sorpresa e del disgusto. Il sistema delle emozioni si pone, quindi, come una sorta di grammatica, perché consente di identificare, costruire, scambiare – con sé e con gli altri – questo genere di significati, istruendo una semantica e una pragmatica elementari. La grammatica delle emozioni precisa, invece, la sua sintassi nell’ambito di una sorta di bio-sociologia basica, che riflette i vincoli e le possibilità d’incontro\scontro tra gli individui della specie. Essa si costruisce, infatti, con la specificazione delle regole, che governano la declinazione del linguaggio emozionale nell’ambito del rapporto tra il singolo individuo e gli altri membri a lui prossimi della specie, determinando concretamente in tal modo lo sviluppo delle emozioni secondarie specificamente sociali e intersoggettive (ansia, vergogna, gelosia, invidia, speranza, rimorso, senso di colpa, rassegnazione, perdono, offesa, delusione, disprezzo…). Tali regole coordinano il significato emozionale e corporeo del soggetto con la corrispettiva dinamica emozionale degli altri soggetti nell’ambito e nell’esercizio di scene e canovacci relazionali, determinati dalla struttura elementare della socialità umana, preformata dalla biologia sociale della specie, ma formattata nella cultura complessiva, in cui si svolgono le interazioni specifiche di quel soggetto. I due sistemi di regole, benché profondamente embricati tra loro, agiscono diversamente: il primo sistema – diciamo la grammatica – è di marca corporea e auto-centrica e determina vincoli nell’anticipazione di significato in termini di peso e valore di uno stimolo o di un pattern relazionale, determinati dalla diretta e semplice marcatura corporea; la seconda, invece, – diciamo la sintassi – prende forma dal confronto tra il peso e valore attribuito da un soggetto e quello attribuito dagli altri soggetti, con cui si trova a contatto e in cui, dunque, l’attribuzione del significato corporeo deve inserirsi in canovacci e scene accettate, per evitare che la frase, che si costruisce – l’azione che si propone, – sia considerata erronea dall’altro e punita con un peso e un valore negativi, che potrebbero contraddire la semplice marcatura emozionale diretta. I due sistemi, profondamente embricati, costituiscono il cardine della regolazione del me (self-regulation) nella regolazione del noi (interpersonal-regulation).
- Questa concezione del sistema intenzionale, del suo sviluppo e del suo funzionamento, (in connessione con l’attitudine metaforica della mente), sembra poter occupare in una teoria del soggetto il ruolo e i compiti svolti nella teoria classica dal concetto di inconscio.
d. il contesto soggettuale e il concetto di vincolo
Se la soggettività è l’auto-costituirsi di un punto di vista in cui e da cui un soggetto-narrante si auto-racconta, allora il suo vissuto e il suo raccontarsi saranno modellati dal punto di vista e da un costante lavoro di contestualizzazione, determinato dalle regole della sua organizzazione e, in concreto, dal conseguente fissarsi di vincoli, di catene di vincoli e di una organizzazione gerachica di vincoli. Chiamiamo “contesto soggettuale” (Scano, 2012) l’organizzazione specifica del punto di vista soggettuale propria di ogni soggetto in conseguenza dell’esercizio di questo set di regole e dei vincoli che esse hanno prodotto e producono nel fluire del vissuto e dell’esperire. Tale nozione ricopre l’area occupata nella teoria classica dal transfert, ma anche dalla resistenza e dalla difesa. Non si tratta di un contesto lineare, ma di un costante e stratificato esercizio di contestualizzazione, che costruisce il vissuto, il racconto del vissuto pregresso, la lettura del mondo interazionale, la costruzione dell’azione, la progettazione del futuro.
La più parte del cono del contesto soggettuale è costituito da significati attivi, (perché regolano le emozioni, innescano azioni, danno origine a progetti, teorie e intenzioni), ma, non dicibili: sono “significati senza parola”. Tale zona oscura del cono del contesto soggettuale è costituita da nessi vincolati e marcati emozionalmente, ma inaccessibili alla coscienza. Tali strutture emozionali vincolate e marcate si organizzano a costituire sistemi di categorizzazione per la processazione del vissuto che determinano le aspettative desiderate o temute, innescano l’intenzionalità consapevole e inconsapevole e, in ultima analisi, governano l’azione e il comportamento complessivo del soggetto. Le strutture emozionalmente marcate (vincoli) possono dare vita, al livello delle narrazioni più prossime alla coscienza o dichiaratamente coscienti, a convinzioni e teorie relative al funzionamento della mente (propria e altrui), che guidano il comportamento intenzionale sia consapevole che inconsapevole.
La struttura e il concreto funzionamento del contesto soggettuale nella regolazione dell’intenzionalità e dell’azione del soggetto è determinata dai vincoli, dalla loro stratificazione gerarchica e dalla costante attività attrattiva nei confronti della stimolazione in entrata e della valutazione delle azioni in uscita. Il termine “vincolo” indica semplicemente un nesso stabile che si stabilisce tra un elemento somatico-valoriale (dolore, piacere, emozione, emozione derivata, sentimento) e un elemento simbolico-rappresentazionale. Tale nesso determina un significato e istruisce (e talvolta prescrive) un’azione. In definitiva dunque un vincolo è uno schema stabile tra una percezione, un’emozione e un’azione.
Per “elemento somatico-valoriale” si intende un qualunque evento corporeo che, per il suo valore edonico positivo o negativo, può fungere da marcatura qualificante e, dunque, si tratta essenzialmente delle sensazioni della diade piacere-dolore e delle cosidette emozioni primarie, da cui con lo sviluppo si specificheranno quelle secondarie sino ai sentimenti. Tali eventi corporei hanno un ruolo essenziale nella regolazione organismica e nel processo di attribuzione del significato. Il modo più semplice di indicare, invece, l’elemento simbolico-rappresentazionale, è quello di utilizzare il semplice termine “ricordo”, non nel senso corrente di “memoria rievocata o rievocabile”, ma in quello più ampio e generale di evento del vissuto che ha lasciato una memoria consapevole o inconsapevole e può essere riattivata da uno stimolo “esterno” o “interno” (sensibilizzazione).
e. Ipotesi basilari di una teoria dell’intervento terapeutico
A partire da questa visione complessiva relativa
- al sistema T/P e in particolare dall’assunto secondo cui “le interazioni tra un T(erapista) e un P(aziente) si auto-organizzano, in un sistema complesso (SISTEMA T\P) regolato dalle regole grammaticali e sintatiche che governano ogni accoppiamento strutturale tra due “io” nella specificazione concreta istruita dalla narrativa culturale, biografica e personale dei due soggetti in interazione”;
- e al sottosistema P e in particolare dall’asserto secondo cui“ l’ organizzazione soggettuale, la regolazione della sua intenzionalità e, in definitiva, il suo vissuto e la sua azione emergono da una organizzazione gerarchica di nessi marcati (vincoli), che costituiscano i mattoni essenziali dell’’intenzionalità soggettuale, della motivazione, dell’azione e, conseguentemente, della modalità specifica di costruzione del significato,
si può formulare una sequenza di ipotesi sintetiche, che disegnano gli snodi cruciali di una possibile teoria generale dell’intervento terapeutico.
1. Ipotesi I (sul cambiamento)
Il cambiamento emerge come co-evoluzione del sistema P nella evoluzione complessiva del sistema T\P. Tale evoluzione, divergente rispetto a quella inerziale del sistema, costituisce una singolarità, si verifica in conseguenza di eventi interattivi e meta-interattivi ed è funzione:
- della maggiore o minore rigidità dell’organizzazione iniziale
- di una sufficientemente positiva interazione tra il contesto soggettuale di P e il contesto soggettuale di T.
2. Ipotesi II (sull’ apertura e chiusura dei sistemi)
I sistemi P e T sono sistemi aperti, organizzazionalmente chiusi, che tendono a modificarsi, mantenendo (e per mantenere) la loro organizzazione e la loro unità di funzionamento. Tale tendenza al mantenimento dell’equilibrio sistemico poggia in ultima analisi sul sistema delle emozioni come meccanismo biologico di modulazione e controllo dello stato del corpo. Gli schemi di allontanamento dalle previsioni di emozione negativa (o stati del corpo negativi) e quelli di avvicinamento, tesi a promuovere le previsioni di emozioni positive, costituiscono in ultima analisi la tessitura portante del contesto e, per quanto attiene alla previsione di emozioni negative, funzionano secondo uno schema analogo a quello freudiano del segnale d’angoscia.
3. Ipotesi III (sull’interazione e metainterazione)
In una situazione di accoppiamento strutturale sufficientemente profonda si attiva, progressivamente e in misura variabile, dai livelli più superficiali a quelli più profondi, l’intera struttura del contesto soggettuale di P e di T e dunque l’intero ventaglio dei nessi marcati e vincolati. Il flusso effettivo delle transazioni viene continuamente processato in linea dalla attività di questa matrice complessa di attribuzione di significato, su cui l’attività meta-interattiva può intervenire solo a posteriori.
4. Ipotesi IV (sulla domanda):
P presenta, in genere in modo facilmente leggibile da parte di T, sia i suoi vincoli più superficiali (p.e. sotto forma di comportamenti più o meno coatti o come veri e propri sintomi) sia le conseguenze più massive dell’intera organizzazione vincolata (sotto forma p. e. di sofferenza psicologica, di comportamenti egodistonici, di anomalie nell’umore, nell’autonomia, nell’autostima, nella fiducia e sicurezza …). I vincoli più superficiali in genere rappresentano anche il punto di giustificazione della “domanda esplicita” e consapevole di P all’inizio del trattamento. La “domanda effettiva” può invece essere inferita da un processo di analisi della domanda che implica una più attenta percezione della gerarchia dei vincoli e la loro inferita articolazione con i deficit dell’intera organizzazione vincolata.
5. Ipotesi V (sulla resistenza)
In virtù della chiusura sistemica e del suo contesto soggettuale, P tende a leggere l’azione di T e la situazione relazionale nei termini delle anticipazioni e significati preordinati dai suoi vincoli e, più superficialmente nei termini delle sue teorie esplicite e implicite, costruendo i contesti secondo le sue modalità di significazione e giustificando in tal modo le sue azioni e i suoi vissuti. Ciò si tradurrà nel flusso delle interazioni come resistenza, che consiste nella frizione tra i contesti costruiti da P e i contesti costruiti da T.
6. Ipotesi V (sui vissuti tradizionalmente indicati come “transferali”)
Con l’approfondirsi dell’accoppiamento strutturale viene progressivamente attivata l’intera struttura del cono soggettuale e, dunque, l’intero ventaglio dei nessi marcati e degli schemi di significazione-azione, che come una sorta di monitor di controllo “legge” e dà senso a quanto avviene in superficie nella interazione avvertibile e avvertita. Man mano P risponde a ogni azione, emozione, comunicazione o comportamento (espliciti o inferiti) di T anche con le strutture più elementari del campo e cioè con l’intera enciclopedia dei suoi nessi marcati oltre che con le sue teorie e generalizzazioni esplicite o implicite. Gli elementi in genere non dicibili della parte oscura del cono soggettuale possono funzionare come un campo di metaforizzati, che istruisce una metafora “detta” o “agita”. In questo caso il vissuto, l’azione, il desiderio, l’emozione y di P sta all’azione, emozione, desiderio, scopo o comunicazione di T (percepita o attribuita a T) come il vissuto, l’azione, il desiderio, l’emozione y di P sta ad x in cui x è un elemento del campo dei metaforizzati. In questo contesto le strutture più organizzate in termini linguistici del contesto soggettuale trasformano la metafora nelle varie situazioni secondo derivati e trasformazioni, che possono appartenere al registro logico, simbolico o metaforico. Le strutture più elementari del campo rispondono, sembra, con trasformazioni che pertengono sempre e solo al registro metaforico.
7. Ipotesi VI (sulla "difesa")
Alcune di queste trasformazioni nel registro logico, simbolico o metaforico in virtù dell’esercizio possono fissarsi come modalità ripetitive o persino coatte dando luogo a una sorta di collasso del sistema di modulazione delle emozioni. Si tratta di meccanismi concettualizzati in passato come “di difesa”.
8. Ipotesi VII (fattori di cambiamento)
- del progressivo instaurarsi di un accoppiamento strutturale sufficientemente profondo da rimettere in gioco i livelli sufficientemente bassi e nodali del contesto soggettuale e dei suoi vincoli;
- del progressivo approfondirsi, nel contesto di tale accoppiamento strutturale, del lavoro di identificazione e progressiva chiarificazione dei vincoli più rilevabili da un punto di vista fenomenologico e delle convinzioni (consapevoli e inconsapevoli) relative alla propria mente e all’altrui”. Tale lavoro analitico restituisce senso (rendendoli intelligibili e sensati all’interno del vissuto del soggetto) i sintomi e i comportamenti limitativi o autolesivi. Tale lavoro oltre a promuovere la “fiducia tecnica” (alleanza terapeutica) dovrebbe favorire una esperienza di “comprensione” almeno superficiale;
- del riconoscimento e della risoluzione dei problemi del processo di soluzione, cioè dei problemi introdotti dai processi che nella tradizione analitica sono indicati come “transferali”. Tale lavoro consente al terapista di “entrare nella pelle dell’altro” riconoscendo a un tempo il proprio (del T) ruolo nella costruzione dei contesti e la sua eventuale complicità nei contesti dei contesti;
- dello sforzo di disambiguazione delle metafore tramite il ricorso da parte del terapista non tanto e non solo al suo dizionario e al suo codice denotativo, ma alla sua enciclopedia e al suo codice connotativo. Tale sforzo è una effettiva azione di apertura e comprensione, che implicherà i sentimenti e le emozioni del terapista, le quali presumibilmente fungeranno da perturbazione a confronto con le teorie, le aspettative e le risposte attese da parte di P.
- Della conseguente effettiva interazione, che dovrebbe\potrebbe portare a forme negate di essere con, a nuove metafore e a nuove narrazioni presumibilmente anche attraverso “test di saggio” secondo le ipotesi di Weiss e Samson;
- L’apparizione di metafore nuove, l’esperienza di sentimenti nuovi e via via anche di emozioni nuove (nel senso di nuova associazione emozione-oggetto) dovrebbe segnare i punti di snodo del processo.
La congettura, dunque, è: 1) che l’interazione tra T e P può determinare eventi nuovi, inattesi e perturbanti al livello degli snodi semantici propri di una relazione intersoggettiva intensa; 2) che la struttura metaforica dei fenomeni cui si riferiva il termine “transfert” può consentire la produzione di un senso nuovo; 3) che le caratteristiche della metafora rendono in qualche modo dicibile il senso così costruito. La metafora interviene in questo processo sia in quanto azione (accanto a molte altre possibili forme di azione) sia in quanto meccanismo semiotico.
Co-creazione?
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- Scritto da Gian Paolo Scano
Valentino Cristiano mi invia una citazione di Bromberg chiedendomi di postarla sul blog perché ritiene che il testo ponga “diversi quesiti e, forse, equivoci”. Raccolgo volentieri l’invito e proverò a esplicitare qualche quesito.
“Uno dei principi fondamentali [...] sancisce che la forma dell'interazione e il significato degli affetti e delle intenzioni relazionali che regolano lo scambio scaturiscono da un processo co-creativo. I processi co-creativi producono forme uniche di stare insieme in qualsiasi relazione, non soltanto in quella madre-bambino. La co-creazione pone l'accento su cambiamenti dinamici e imprevedibili delle relazioni che sottendono la loro unicità. [...] [Il] concetto di co-creatività non implica né una serie di passi, né uno stato finale; implica piuttosto che, quando due soggetti si coinvolgono reciprocamente in uno scambio comunicativo, non è dato sapere come staranno insieme, né quali sono le dinamiche e la direzione che seguiranno; tutto questo scaturirà soltanto dalla regolazione reciproca. Quindi, mentre possiamo osservare uno scambio avvenuto e descriverlo con una narrazione, dobbiamo renderci conto che prima che esso avvenisse e durante il suo svolgimento, non esisteva alcuna narrazione o matrice a strutturare lo scambio stesso. Cogliere e rispettare questa distinzione, capire cioè che ciò che è accaduto può essere narrato, a differenza di ciò che sta accadendo, comporta conseguenze importanti ai fini della comprensione di ciò che avviene nelle relazioni, compresa la relazione terapeutica.”
“Co-creazione” implica qualcosa di diverso rispetto al più consueto “co-costruzione”? Sotto molti versi, sembra soltanto il suo gemello, solo più esplicito - (e spregiudicato!) - nel sottolineare l’aspetto d’imprevedibilità creativa, che, tuttavia, in termini più discreti, è già implicito nel più consueto “co-costruzione”.
“Co-costruzione” è termine espressivo, forse utile, ma da … maneggiare con cura a causa della sua indecisa vaghezza. Si fa apprezzare per la capacità di esprimere in modo immediato e concreto una promettente direzione di ricerca attraverso il drastico superamento di assunti tradizionali diventati obsoleti. Suggerisce, infatti, in un colpo solo, che il comportamento non è prodotto da un apparato psichico o una mente isolata, che la mente non è ristretta e contenuta nella scatola cranica, che mente, vissuto e comportamento si devono spiegare nello spazio aperto dell’interazione tra menti, che intenzioni e significati sono frutto di processi complessi e non effetto di eteree entità mentaliste. Tale ricchezza rischia, tuttavia, la mera assertività, in assenza di un’attenta e falsificabile descrizione congetturale dei processi evocati. Senza una precisa teoria che descriva e spieghi i processi, - io non la trovo! - il termine rischia di restare una réclame autoevidente o un'elegante scatola vuota facilmente usurpabile a schematico slogan, seduttivo ma inconsistente.
“Co-creazione”, il gemello più intraprendente, mostra facilmente i possibili equivoci derivanti dall’insufficiente elaborazione teorica. Bromberg scrive che “…che la forma dell'interazione e il significato degli affetti e delle intenzioni relazionali che regolano lo scambio scaturiscono da un processo co-creativo”. Certo! Non si potrebbe però contemporaneamente anche pensare che forma dell’interazione, significato degli affetti e (conseguenti) intenzioni realazionali abbiano un ruolo non secondario nella determinazione del processo stesso? Qualche indizio sulla solidità di tale congettura non sembra davvero mancare nella messe di dati forniti dalla psicologia scientifica, dalla neuro-psicologia e magari anche da cento anni di pratica clinica.
Bromberg ha sicuramente ragione nel ritenere che ogni interazione è una singolarità e che, conseguentemente è ragionevole affermare che “...quando due soggetti si coinvolgono reciprocamente in uno scambio comunicativo, non è dato sapere come staranno insieme, né quali sono le dinamiche e la direzione che seguiranno; tutto questo scaturirà soltanto dalla regolazione reciproca”. Certo. A che livello, però, tale asserto deve essere considerato vero? Al livello dell’osservatore-partecipante e, dunque, per quanto attiene alla psicoterapia, a livello puramente tecnico-relazionale? O anche al livello dell’osservatore-scienziato e, dunque, metodologico? O deve essere considerato vero in assoluto e, dunque, a livello teorico più generale? Se l’asserto è inteso come vero dal punto di vista metodologico e teorico, non si sta contemporaneamente negando ogni pretesa scientifica della psicoterapia? Se, infatti, l’esito di un processo è in assoluto imprevedibile, non può essere oggetto di indagine scientifica: la scienza è previsione confermata dall’osservazione. Il dubbio è che i processi evocati siano assai più complessi e il quadro delle variabili assai più intricato.
Bromberg spiega, infine, che “...mentre possiamo osservare uno scambio avvenuto e descriverlo con una narrazione, dobbiamo renderci conto che prima che esso avvenisse e durante il suo svolgimento, non esisteva alcuna narrazione o matrice a strutturare lo scambio stesso”. Sembra evidente! Prima e durante un’interazione non può esistere narrazione possibile di quella interazione. Si può, però, dedurne e concludere che non esisteva alcuna narrazione o matrice a strutturare lo scambio stesso? Questa deduzione è davvero logica? Questi asserti, se intesi in senso forte, non implicano, necessariamente, che l’ADESSO non è in alcun modo determinato dall’ALLORA? In realtà, da molti angolini della biblioteca delle scienze antropologiche spuntano indizi che lo “spazio tra le menti” sia, invece, assai affollato di narrazioni e matrici che strutturano lo scambio. Anche quello tra madre e bambino, per non dire di quello tra terapista e paziente.
A riguardo di molte formule che diventano virali (co-costruzione, co-creazione sintonizzazione emotiva...) sarebbe saggio interrogarsi sul “chi” e sul “cosa”: chi-co-costruisce-cosa, chi-co-crea-cosa, chi-sintonizza-cosa ... ? Forse è ingenuo pensare che il “chi” sia semplicemente il “soggetto” o la diade dei soggetti. Il “soggetto” è causa o effetto dei processi? Cos’è un soggetto senza narrazioni? e senza processi? Se si assume un “soggetto-che-causa-i-processi”, linearmente, come si può evitare il mentalismo?
La difficoltà a rispondere a queste domande è buona misura approssimata del lavoro teorico da svolgere prima di poter ragionevolmente canonizzare una qualsiasi di tali formule. E’ anche una misura di quanto sia pesante la mancanza di una teoria generale!
TIRARE LA LINEA I: LA PSICOANALISI CHE C’ERA.
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- Scritto da Gian Paolo Scano
Questo testo - qui suddiviso in tre parti - è stato presentato a il 28. 05. 2016 alla SIPRe (Milano).
Molto tempo fa, quando provavo a smettere di essere bambino senza riuscire a essere giàragazzo, mi capitòdi fare una scoperta, che aggiunse uno spicciolo consistente al salvadenaio della mia autostima. Dico scoperta per dire. Erodoto e Tucidide mi avevano preceduto di qualche anno! Ci arrivai da solo, però. Per me, quindi, fu una “scoperta”. Ricordate il libro di storia della prima media? Sfogliatelo mentalmente… Sumeri, Assiri, Babilonesi, Egizi, Ittiti, Cretesi, Micenei…Occupavano in fila, uno dopo l’altro, il palcoscenico della storia. In ginnasio…da capo! Stesso ordine, ma più confuso perchési aggiungevano Kurriti, Mitanni, Cassiti, Elamiti, Amorrei, Ebrei …Fu la battaglia di Kadesh a farmici pensare. Ramses combatteva con gli Ittiti, dunque … si mischiavano in guerre, traffici e contese! Chi? Con chi? Quando? Ecco la scoperta. Tirai su un foglio abbastanza grande una linea continua. A sinistra, sotto, scrissi 3000 A.C. e sopra, Sumeri, più sopra Egizi, poi, procedendo verso destra, aggiungevo le date di ingresso e di uscita degli assiri, dei babilonesi e delle altre culture man mano che la linea del tempo procedeva. Linee continue parallele segnavano la persistenza nel tempo, linee verticali indicavano i contatti, pacifici e non, tra popoli e culture. La sensazione fu di aver fatto chiarezza in tutto quel disordine perché potevo capire, con un colpo d’occhio, chi, con chi, quando e dove si potevano o dovevano mischiare. Seppi di aver fatto una cosa intelligente quando il professore mi regalòun 8 del tutto inatteso - 8, a quei tempi, era il massimo; 9 lo avevano dato, forse, a Dante e a Galileo; 10 era riservato a Dio! - e mi mise in mano un libro dalla copertina gialla sulla guerra tra Atene e Siracusa, che aveva appena letto. Quel libro mi consentì un’altra scoperta: per la prima volta mi resi conto che andare per fratte, inseguendo la curiosità, èmeglio che seguire il sentiero sicuro del manuale. Da allora mi ècapitato spesso di dirmi: “qui bisogna tirare la linea!”.
A riguardo della psicoanalisi mi capitò, la prima volta, sul finire degli anni settanta. Credo sapete di quello sparuto gruppetto - in tutto non facevamo neanche i dodici apostoli, - che si riuniva a Via Casilina. Il giovedì si tenevano le lezioni. Il martedì, invece, dalle sette e mezzo, si studiava, si parlava, si discuteva e si litigava. A oltranza! In genere, non c’era un ordine del giorno, ma anche quando c’era, in fondo, si parlava sempre della “cosa”. La “cosa” era la “psicoanalisi come dev’essere”. Non sapevamo come doveva essere. Forse pensate che noi giàsi parlasse di soggetto, soggettività, intersoggettività. Non ècosì! Avevamo soltanto smesso di credere che la psicoanalisi fosse davvero una scienza normale come si diceva ancora ed eravamo abbastanza certi che la “psicoanalisi-com’era” non era la psicoanalisi-come-dev’essere. In quel momento, era giàabbastanza aggrovigliata. C’era la Psicologia dell’Io, predominante in Nord America, che si riteneva lo sviluppo genuino della disciplina fondata da Freud. In Gran Bretagna si erano attutite le infinite controversie tra la corrente kleiniana e quella guidata da A. Freud e da Jones e si era sviluppato impetuoso il non lineare contributo dei teorici della relazione oggettuale. In Sud-america, l’Argentina era marca kleiniana. In Francia prevaleva la rilettura lacaniana, mentre in Germania si andavano affievolendo gli echi della Scuola di Francoforte, che tramite Fromm aveva rinvigorito la corrente culturalista americana. Il noto articolo di Hartmann (1950) sull’Io, che rileggeva l’Io narcisistico del 1914 secondo un’accezione prossima alla nozione di “Self”, aveva consentito una robusta contaminazione tra la psicologia dell’Io e le istanze della relazione oggettuale, promuovendo teorie come quella della Mahler, della Jacobson e di Kernberg, ma, soprattutto, aprendo la strada alla prepotente revisione kohutiana, che minacciava la posizione dominante della psicologia dell’Io. In Italia prevalevano le posizioni kleiniane e lacaniane, poiché, a causa del fascismo, per molto tempo gli aspiranti analisti avevano dovuto emigrare a Londra o a Parigi per il loro training. Giungevano anche i segnali dissonanti della non ovvia riflessione bowlbiana.
Questa la situazione. Antecedentemente, nel 1958, si era svolto un importante convegno alla New York University, in cui la natura scientifica della psicoanalisi fu messa al vaglio della filosofia della scienza. Il giudizio degli epistemologi, nonostante la difesa di Arlow e Hartmann, fu inesorabilmente negativo a causa dell’impossibile traduzione operazionale degli asserti psicoanalitici. Rapaport però aveva raccolto la sfida e per due decenni aveva lavorato alla formalizzazione della teoria con l’intento di sottoporla a verifica. Il mondo psicoanalitico, però, in quelli anni, dibatteva piuttosto su tre grandi problemi:
1°. Il primo era stato innescato nel 1946 da Alexander che, con la famosa formula della “esperienza emozionale correttiva”, aveva lanciato un sasso insidioso quasi quanto quello con cui Davide irrise il gigante filisteo. L’asserto di Alexander non metteva in dubbio soltanto l’indiscussa fiducia nella triade interpretazione-insight-cambiamento, ma, evocando un fattore di cambiamento tarato sull’esperire invece che sul ricordare, metteva in discussione l’intera concezione del metodo e, conseguentemente, la piattaforma teorica su cui il metodo poggiava. La questione si chiuse nel 1961 al Congresso di Edimburgo, con il trionfo del gigante e la restaurazione ortodossa, che sterilizzòil sasso di Alexander con la riaffermazione dell’unicità dei fattori attivi conoscitivi nella forma sistematizzata da Eissler (1953) e dai suoi parametri.
2°. La nascita di nuove formule psicoterapeutiche rendeva poco concorrenziale l’oneroso impianto dell’analisi freudiana e molti analisti si trovarono costretti a modificare il setting, riducendo drasticamente il numero delle sedute e dando vita a quella che sarà chiamata Psicoterapia psicoanalitica. Si aprì così l’infuocato dibattito sul rapporto tra psicoanalisi (l’oro) e psicoterapia psicoanalitica (il bronzo), il cui spessore emerge facilmente, confrontando il famoso articolo di Gill del 1954 e il suo remake di 30 anni successivo.
3°. Infine, la psicoanalisi inglese poneva con forza il problema del “self”, del “mondo interno”, dei “rapporti oggettuali”, ma si preoccupava assai poco del rapporto da stabilire tra queste istanze soggettive e relazionali, la teoria dei processi e l’apparato metapsicologico.
In questa situazione aggrovigliata ci sembrava necessario tirare la linea per mettere ordine nelle cose. Tracciarla però era compito assai più complicato della semplice trovata di fissare la linea del tempo per sistemare Sumeri, Egizi, Babilonesi e Ittiti. Si trattava di disegnare la linea pulita della teoria per giungere più spediti alla psicoanalisi come dev’essere.
A quei tempi era chiaro che la psicoanalisi aveva tre differenti livelli di teoria: la teoria formale, indicata più spesso come metapsicologia, la teoria clinica o speciale e la teoria della tecnica. La prima èla vera teoria, perchésu di essa poggiano le altre due. Non ci vogliono centinaia di pagine per descriverla: Freud nel VII capitolo dell’Interpretazione dei sogni se la cava con poco più di una ventina. Rapaport se ne fa bastare anche meno. Ridotta all’osso, la metapsicologia si riduce ai “punti di vista”: topico, economico, dinamico, strutturale, cui si deve aggiungere quello genetico, non esplicitato da Freud. Si tratta di veri punti di vista, che guardano al vissuto e al comportamento dal punto di vista, appunto, della coscienza e dell’inconscio (topico), da quello delle energie (economico), da quello delle forze (dinamico), da quello delle funzioni strutturate (strutturale) e, infine da quello del divenire nel tempo (genetico). La metapsicologia, astratta e distante dal vissuto, è poco maneggevole, per capire Giacomo o Maria, per questo la psicoanalisi si era dovuta dotare anche di una teoria di medio livello, detta in genere teoria clinica che, grazie a generalizzazioni più vicine all’osservazione e all’esperienza, consentiva l’applicazione della teoria generale al caso singolo e al singolo sogno, sintomo o comportamento. Lo sviluppo psico-sessuale, l’Edipo, il narcisismo, i meccanismi di difesa, la formazione dei sintomi sono capitoli della teoria clinica, le cui modificazioni o confutazioni, non toccano la sostanza della teoria psicoanalitica. Infine, per utilizzare queste teorie in un intervento tecnico controllato, era necessario un ulteriore livello di teoria, il cui nome appropriato era metodo, ma, in genere, veniva indicato come teoria della tecnica.
I tre livelli non sono autonomi; dipendono logicamente l’uno dal’altro. Anzi, a voler essere precisi, tutta la piramide grava su un unico assunto, che si chiama “principio di costanza”, da cui dipende il principio del piacere, che regola l’economia, su cui poggia la dinamica, la quale, a sua volta, regge la topica con la fondazione sia dell’ inconscio topico che della più tarda struttura tripartita Io, Es e Super-io. Da questa concatenata architettura dipendono tutti i concetti della teoria clinica e, quindi, pezzi da novanta come le nozioni di fantasia inconscia, desiderio inconscio, intenzionalità inconscia, transfert e ancora lo sviluppo psicosessuale, il narcisismo, i meccanismi di difesa e via enumerando. Anche gli elementi essenziali del metodo dipendono dall’insieme del grappolo, perché, soltanto se reggono tutti gli anelli soprastanti, posso ragionevolmente pensare che, se rivelo a Maria le sue segrete intenzionalità inconsce, che la costringono a rovinarsi la vita, sarà in grado di smettere di rovinarsela. Ciò equivale a dire che l’assunto tecnico, che si può sintetizzare nella triade interpretazione-insight-cambiamento, presuppone la totalità della metapsicologia.
Oltre all’intrico delle differenze di scuola, c’erano altri segnali che suggerivano la necessità di tirare la linea. Erano segnali che vivevo in prima persona perché, avendo dedicato, per la tesi di laurea e la sua pubblicazione, sei anni allo studio storico-critico della teoria freudiana, mi ero andato sempre più convincendo che in quella costruzione le fondamenta non fossero giuste per quella pianta, che la pianta non fosse giusta per quell’alzato e che, per muoversi dentro quello spazio concettuale, era necessario ricorrere continuamente a invisibili “funi appese al cielo” (Dennett). Come non bastasse, giungevano da occidente altri segnali sinistri. Erano tuoni e lampi ancora lontani. Poi fu diluvio! Il lavoro di Rapaport aveva confezionato un imprevisto, involontario siluro che, armato puntigliosamente da Rubinstein, aveva colpito dritto il picciolo che reggeva tutto il grappolo delle tre teorie, segando di netto il principio di costanza e il concetto di energia. Era la santabarbara. Colpita e affondata!
Immagino che qualcuno di voi stia pensando: sì! va bene! Perchéci parli di queste vecchie cose di 40 anni fa… la metapsicologia… la teoria formale … il principio di costanza? Per capire la crisi che sta facendo a pezzi la Siria mica serve andare giù giù a frugare nelle viscere degli Ittiti! Certo! E’che vorrei farvi toccare con mano l’allora urgente necessità di tirare la linea…dapprima per lo sfrangiarsi della teoria in rivoli incomunicanti, poi per il suo crollo catastrofico. Ho, però anche un secondo intendimento. Le teorie sono una bellissima cosa, ma sono anche strani animali con una vita tutta loro e strane abitudini. Tu credi di pensare le teorie, ma èmolto piùvero che le teorie … pensano te. Quest’abitudine può congegnare trappole pericolose. Temo che, negli ultimi 30 anni, in una di queste trappole la psicoanalisi sia cascata con tutte le scarpe così che, magari anche oggi, quando tutto il mondo sembra diventato relazionale e intersoggettivo, potrebbe essere necessario … tirare la linea.
La banda dei sanculotti di via Casilina giunse presto a stabilire che, morta la teoria, era certo giusto piangerla, seppellirla con tutti gli onori per volgersi, però, dopo un congruo lutto ma prima possibile, a tirare un’altra linea, che consentisse di ordinare in modo nuovo le cose. Questo proposito traspare nel nome stesso che si diedero. Oggi è facile. Uno dice “Psicoanalisi della relazione” ed è qualcosa che va giù tranquilla. Per voi é un nome, che entra leggero nell’orecchio, scivola diritto per il nervo acustico e, giunto nella stanza centrale del vostro cervello, entra come uno di famiglia e i vostri gnomi mentali continuano a fare ciò che stavano facendo senza nemmeno badarci. Allora mica era così. Quel nome era una cosa né tonda né liscia. Era una pigna tutta bozzi e punte che quando, scorticando la rampa timpanica, arrivava nella sala comandi, metà degli gnomi incrociavano le braccia e la guardavano con sospetto: “e che è ‘sta cosa?”.
“Psicoanalisi”, oggi, ècosa fluida, che ognuno si puòaggiustare a piacere, come il pongo. Allora era cosa dura, precisa, una sfera di porfido nero. Apparato, energia psichica, realtàpsichica, pulsione, difesa, investimento, controinvestimento, rimozione, Io, Es, Super-io… La sfera non aveva un incavo o un gancio, cui appendere una cosa come “relazione”. “Psicoanalisi” spiegava sogni, sintomi, fantasie e relazioni. Tutto. Specificare “Psicoanalisi” con un “della” poteva significare soltanto l’applicazione della teoria a un oggetto particolare così se si diceva “psicoanalisi dei sogni o della relazione”, si doveva intendere la “procedura di spiegazione di...”.
Noi perònon s’intendeva questo. Quel “della” era una specificazione di psicoanalisi, non del suo oggetto. Ed era cosa irriverente e scorretta. Suonava male ed era anche poco presentabile. Per non dire, che “relazione”si sapeva mica cos’era: non esistevano mappe di “relazione”.
Discutendo e dibattendo si riuscì a chiarire che non si trattava di spiegare “relazione” con “psicoanalisi”, ma piuttosto “psicoanalisi” con “relazione”. Forse non lo sapevamo dire in modo così chiaro, ma a questo si giunse ed era l’inizio degli anni 80. C’era, infatti, un modo semplice e comodo, per dare un senso presentabile a “psicoanalisi della relazione”. Bastava accodarsi ai relazional-oggettuali. Facile, accettabile, utile per le … relazioni che contano. Era una strada in discesa, che, però, portava dritta al mentalismo. Cominciavamo, infatti, a capire che la mente, - ed era l’idea di soggettivitàe intersoggettivitàche cominciava a presentarsi! - non sta nella scatola cranica, èpiùfuori che dentro, ma èfatta di corpo, di neuroni. Di neuroni e di altre menti, che stanno fuori e, per entrare nel “dentro” della mente di Sara, devono ridiventare neuroni. I neuroni, però, tirano facile al riduzionismo!
Con il procedere degli anni ’80 questo ci diventava più chiaro e conseguentemente sembrava logico ci si dovesse rimboccare le maniche per tirare sul foglio una nuova linea, coerente con quanto sapevamo del funzionemento del cervello e con quanto le altre scienze dell’uomo ci dicevano a riguardo dell’azione umana. Non era semplice, però, per due motivi. Anzitutto eravamo impastati nella rete concettuale della teoria classica che, per questo, modellava i nostri tentativi di ripensamento della teoria più di quanto noi riuscissimo nel nostro tentativo di modificarla. Adesso èfacile capire che era l’idea stessa di “apparato psichico” a produrre il vischio che ci impaniava. E’ una delle conseguenza delle strane abitudini delle teorie cui prima facevo cenno. L’altro ostacolo invece era connaturato alla teoria psicoanalitica. A Freud era del tutto estraneo il concetto di “soggetto”, che, dunque, mancava del tutto nel nostro armamentario. Questo gli impedì (a lui, ma anche a noi!) di assumere un punto di vista organismico, in grado di giustificare dal basso l’unità bio-fisio-psicologica del soggetto, che doveva essere garantita invece in termini psicologici, e dunque dall’alto, delegando allo psicologico, e dunque a una parte, una funzione che logicamente dovrebbe essere attribuita alla totalità. In un certo senso, tutto il nostro lavoro, nella prima parte degli anni ’80, era volto al tentativo di superare questi due impedimenti, andando un po’alla cieca e risalendo il canalone scivoloso del concetto di Io, perché, a causa dell’idea di apparato e dell’assenza della nozione di soggetto, non potevamo intravedere altra possibilità se non quella di partire dall’Io.
La misura e la conta del lavoro compiuto ce la dava il convegno annuale, una specie di seriosa, goliardica, gita fuori porta. Il lavorio confuso di quei fumosi martedì, si coagulava in relazioni scritte, poi presentate e discusse, in una due-giorni di studio, che si svolgeva all’inizio dell’estate, in luoghi un po'sperduti, in cui elemento ricorrente era la presenza di un lago (Scanno, Ariccia). Erano relazioni corpose, estenuanti. Roba di ore! A rileggerle oggi (tre relazioni sono state fortunosamente ritrovate da Susanna Porcedda in un vecchio faldone dimenticato in cantina!) mostrano tutta la fatica a superare quei limiti e il faticoso approdo alla nozione di soggetto. In particolare mi ha fatto piacere ritrovarne una che si chiamava la “Fabbrica dei desideri”. In modo non del tutto consapevole, era l’anticipazione di un punto di vista organismico. Rileggendola, mi sono sorpreso a costatare che non ho fatto altro, in seguito, che sviluppare quello schizzo troppo fantasioso.
Faticosamente, però, arrivammo al soggetto! Una relazione al primo congresso ufficiale della SIPRe nel 1985 aveva come titolo “La rimozione del soggetto nella teoria psicoanalitica” e “Il soggetto psicoanalitico” è il titolo di un libretto pubblicato nell’ ’87, che forse detiene il record di libro meno letto della storia.
Mentre noi cosìsi faticava, accadevano cose importanti. Nel 1982 apparve il saggio di Gill sull’analisi del transfert e nell’’84 quello sulla psicoterapia psicoanalitica. Furono salutati con entusiasmo da quanti timidamente cominciavano a pensare al transfert in termini di interazione. Molto piùtardi, nel 1994, apparve il suo ultimo libro, che non tracciava la linea, ma indicava la direzione. Nel 1983 arrivò, invece, il libro di Greenberg e Mitchell sulle relazioni oggettuali che legge tutta la storia della psicoanalisi come il lento e tortuoso tentativo di superare il modello pulsionale per approdare a quello relazionale. Secondo Mitchell questa spinta è chiaramente visibile nelle formulazioni dei teorici delle relazioni oggettuali, che mirano a colmare lo iato tra il modello pulsionale e quello relazionale sino a portare sul finire del secolo all’affermazione chiara del secondo.
Un evento si ostinava invece a non accadere: il mondo psicoanalitico mostrava di non aver sentito le campane a morto dei rapaportiani e continuava a parlare di pulsione, libido, Edipo, come nulla fosse successo. Nel 1988, però, nella sessione inaugurale di un congresso dell’IPA e, quindi, come dire, ex cathedra, Wallerstein, che ne era il presidente, pronunciò la famosa prolusione dal titolo “Una o molte psicoanalisi?”. Era la risposta, ma non quella che avremmo sperato. Wallerstein spiega che la teoria di cui la psicoanalisi ha bisogno è una teoria di basso livello, in grado di elaborare i dati direttamente osservabili nell’interazione terapeutica e questa è anche tutta la teoria che i suoi dati possono sostenere e provare. Nel suo pensiero, tale teoria di basso livello è la teoria del transfert e della resistenza, del conflitto e della difesa. La teoria psicoanalitica èsemplicemente la teoria clinica! La metapsicologia - disse - non èla nostra teoria, ma la nostra mitologia, e non ce n’è una sola, ma tante. Così le teorie della Klein e dei post kleiniani, dei relazional-oggettuali, di Kohut e persino dell’incolpevole Schafer, (che si era tanto affaticato per propugnare l’idea che si dovesse fare a meno, persino, di una teoriuccia piccola piccola!), si ritrovarono promosse al rango di metapsicologie. La prolusione di Wallerstein chiuse definitivamente il discorso sull’esito dell’impresa di Rapaport e sulla morte della teoria formale. Se qualcosa èmorto fu qualcosa di irrilevante: è morta una metafora e non c'èbisogno alcuno di tirare una linea nuova sul foglio. Ci basta la teoria clinica. Da allora ogni discorso sulla teoria generale si èdefinitivamente estinto.
Accadevano peròanche altre cose. D’incanto, la psicologia dell’Io perse la sicurezza nel suo ruolo di erede autentica della tradizione psicoanalitica. Con la sicurezza e la supremazia perse anche il nome. Analogo destino ebbe la kohutiana psicologia del sé. Perse lo slancio, che ne alimentava una crescita apparentemente irresistibile sino a trasformarsi, in alcune sue componenti, in senso marcatamente relazionale o costruttivista come del resto accadde a consistenti minoranze dell’ex-psicologia dell’Io.
Il concetto di conflitto andòincontro a una rapida eclisse, divenendo sempre più raro nella letteratura e, improvvisa e inattesa, giunse anche una generalizzata preterizione dei concetti pulsionali. Non un dichiarato abbandono, ma una silenziosa e non dichiarata consegna all’oblio. La difesa della teoria pulsionale divenne rara, anzi, equivalente ad un’auto-dichiarazione passatismo. In questo orizzonte nebbioso, si doveva, infine, registrare l’irresistibile ascesa dell’intersoggettivismo americano.
Questi inattesi fenomeni non si accompagnarono né ad un’analisi critica delle conseguenze, che il venir meno del quadro pulsionale avrebbe dovuto implicare per la stragrande maggioranza dei concetti, non solo della metapsicologia, ma anche della clinica, néad una qualunque dimostrazione del fatto che si possa effettivamente espellere la pulsione dal corpo teorico e continuare ad usare concetti come transfert, rimozione, difesa, inconscio, fantasia inconscia. Di fatto la teoria formale fu relegata in un limbo: nédifesa néconfutata, silenziosamente avvolta nell’ovatta e dimenticata dietro la convinzione che la teoria psicoanalitica èla teoria clinica nelle varie declinazioni di scuola.
Questa inerziale chiusura dei giochi ha incoraggiato:
1. il giàrobusto disinteresse degli psicoanalisti e degli psicologi clinici per la teoria;
2. l’idea che i cosiddetti paradigmi siano auto-fondati, auto-giustificati, auto-sufficienti e, persino, equivalenti;
3. la certezza che i concetti della teoria clinica siano del tutto validi e che, col ritocco di una qualche vernice, magari relazionale o intersoggettiva, siano forti e vitali;
4. la tendenza al “fai da te”e al “taglia e incolla” nella costruzione di personali teorie per la propria pratica clinica, confidando che esista, da qualche parte, un pavimento, che regge un’improbabile scaffale nei cui ripiani collocare il “ciòche mi piace” di Winnicott, di Kohut, di Weiss, di Stolorow o di Mitchell;
5. la sicurezza che l’esperienza clinica giustifica l’... esperienza clinica!
TIRARE LA LINEA II: LE SICUREZZE DEL DOTTOR CANDIDO E LE PECORE DI POLIFEMO.
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- Scritto da Gian Paolo Scano
Ho detto prima che le teorie possono architettare trappole in cui si puòcadere con tutte le scarpe. Ecco qui il Dott. Candido e Sara, la sua paziente. Il dott. Candido èuno stimato analista che, come Wallerstein, non nutre dubbi sul fatto che esista una solida teoria psicoanalitica, che da cento anni trova ogni giorno mille inconfutabili prove della realtà del transfert, della resistenza, del conflitto e della difesa. Candido, però, che di Wallerstein èmolto piùgiovane, èconvinto che tale teoria sia anche in costante, progressivo e positivo sviluppo, come dimostrano i contributi di Mitchell, di Stolorow, di Stern e di altri autori giustamente noti. Egli apprezza le ricerche sulla diade madre-bambino e le acquisizioni delle neuroscienze, sopratutto quelle sulla memoria e sui neuroni specchio, che confermano la rilevanza della comunicazione inconscia e delle costruzioni intersoggettive che si disegnano nelle sue interazioni con Sara. Già... Sara! Dopo poche sedute il dott. Candido conosce i fatti piùimportanti della sua biografia, i personaggi e le vicende della sua famiglia, le scelte di vita, gli studi, il lavoro. Ha un quadro delle sue relazioni, dei suoi problemi, soprattutto di quelli che l’hanno indotta a chiedere una terapia. In questo momento egli e Sara lavorano su un punto preciso. Sara ha una caratteristica comportamentale e relazionale che, in seduta, essi chiamano “distacco”, un modo di funzionare che al dottore - come un giorno le ha brillantemente rivelato - ricorda l’azione di quello strumento, indispensabile nelle grandi cucine, detto “abbattitore”. Oggi Sara ha connesso il suo fungere da abbattitore a quanto accadeva in lei quando suo padre e sua madre litigavano, poi èpassata a parlare della nascita del fratello quando aveva 4 anni, e di una malattia della madre quando ne aveva 7. Più avanti, ha fatto un cenno al suo timore nel maneggiare aggeggi elettrici e alla frequente sensazione di calore umidiccio. Ha anche portato un sogno in cui i suoi vicini di casa litigavano furiosamente.
Il quesito che vorremmo porre al dottor Candido èsemplice: sulla base di che cosa il dottore pensa che questi disparati elementi possano essere considerati in qualche modo collegati e, quindi, collocabili nello stesso quadro? perchè crede se ne possano inferire nessi utili a spiegare la tendenza di Sara a funzionare come un abbattitore? e sulla base di che cosa egli puòavere fiducia nel fatto che gli “ALLORA”raccontati da Sara possano spiegare il suo “ADESSO” e che l’ADESSO, detto e interpretato alla luce degli “ALLORA”, possa modificare gli effetti, che da tali ALLORA egli crede siano stati determinati?
Temo che il dottore, più che prodursi in una pronta risposta, si stupirebbe della domanda, che giudicherebbe inutile e capziosa a fronte dei cento anni di successi della clinica. La psicoanalisi ha sempre cercato e trovato quei nessi, consentendo ai pazienti di giungere a profondi insight capaci di promuovere il cambiamento. Ciò ci darebbe il destro di incalzare il dottore con un’altra domanda a proposito della triade interpretazione-insight-cambiamento, che sembra affondare radici, tronco e rami nella vetusta e dimenticata metapsicologia. Il dottore, senza certamente negare il valore della triade tradizionale, si affretterebbe, però, a insaporirla con abbondanti spruzzi di “ri-vissuto e ri-esperito”, con lo spessore degli spazi interattivi di profonda inconscia comunicazione aperti, magari, dalla reverie dell’analista, e con la trasparenza delle costruzioni intersoggettive che riattivano l’“allora”nell’adesso dell’interazione transferale. Eppoi, - potrebbe aggiungere, - c’é l’inconscio, non l’inconscio rimosso, ma l’inconscio della “memoria implicita” e della “esperienza implicita” che costituisce il sottobosco non verbale dei nostri vissuti espliciti e verbalizzati e funge quindi da tessuto connettivo dei nostri meccanismi difensivi come delle intenzioni inconsapevoli che guidano le nostre azioni.
Il fatto èche certamente, prima degli anni ’70, il problema del quadro in cui disporre gli elementi disparati e quello di connettere l’ALLORA con l’ADESSO non si poneva. La teoria classica, infatti, poggiava sull’assunto della “continuitàpsichica”, che, per la discontinuitàdella coscienza, diventava la prova dell’esistenza di processi psichici inconsci. Su tale assunto era costruito l’apparato psichico, il cui primo e generale principio di funzionamento prevedeva che ogni eccitamento attraversasse l’apparato, in direzione sia progressiva che regressiva, lasciasse una traccia indelebile. Questa impostazione implica logicamente una concezione fissa e determinata del significato, su cui il dottor Candido dovrebbe, forse, spendere più di qualche dilucidazione. In questo quadro l’analista poteva tranquillamente presumere non solo di poter situare e connettere gli elementi man mano emergenti, ma disponeva anche di un “manuale” che gli consentiva di stabilire il significato dei nessi, i possibili intrecci e persino la loro posizione gerachica cosìche egli poteva procedere strato dopo strato. Il suo lavoro mostrava, così, una tendenziale somiglianza con il processo di ricostruzione di un puzzle, - per quanto si trattasse di un puzzle assai complicato, - o con uno scavo archeologico, secondo la metafora freudiana, in cui la statua, la colonna o il vaso stavano lì in attesa di essere scoperti ed esistevano a prescindere dal fatto di essere o no scoperti.
Ma oggi? Certo il dottor Candido ha dismesso il manuale dell’apparato. Il guaio è, però, che, con il manuale, è svanita anche la solidità della cornice. La “continuitàpsichica”, infatti, non èun dato osservazionale. E’ un postulato necessario della teoria classica, che, naturalistica e deterministica, doveva assumere che i significati possano e debbano essere considerati prevedibili in funzione di sequenze determinate di cause e di effetti, ciò che implica presupporre desideri, intenzioni e fantasie inconsce per non interrompere la catena causativa deterministica. Con la “continuitàpsichica”, però, viene meno la giustificazione logica di un inconscio che abbia qualche parentela logica e funzionale con l’inconscio freudiano.
Per mettere insieme l’ADESSO e gli ALLORA di Sara, il dottore non puòpiù fare affidamento nésulla continuità psichica nésull’ormai falsificato asserto secondo cui che tutto quanto accade èregistrato nella memoria dell’apparato reale (i dati sembrano suggerire che soltanto l’1% o poco più dell’accadere viene registrato nella MLT!). Non può nemmeno transustanziare l’inconscio freudiano nell’inconscio della memoria implicita e procedurale per poi attribuirgli, sottobanco, funzioni e caratteristiche proprie dell’inconscio dinamico. Per non dire dei fenomeni imbarazzanti che la psicologia scientifica ha scoperto sul funzionamento quantomeno bizzarro della memoria!
E, dunque, che cosa giustifica la sicurezza del dottor Candido e nostra che si possano collocare in uno stesso quadro i disparati elementi comunicati da Sara? che essi possano fornire significativi nessi per spiegare il suo funzionare da “abbattitore”? che il suo ADESSO sia determinato dai riferiti ALLORA e che tutto questo lavoro sulle multiformi memorie del passato possa produrre un cambiamento?
Le credenze del dottor Candido o sono giustificatie da ipotesi suscettibili di verifica o si auto-giustificano o sono assunzioni non giustificate. Il dottor Candido non sembra disporre di giustificazioni basate su ipotesi verificabili, nè il suo metodo può contare su dati che siano effettivamente dei dati, in grado quindi di giustificare le sie ipotesi e le sue tecniche. Difficilmente egli potrà trovare altra giustificazione che non sia l’eredità storica, l’abitudine tramandata della pratica, il senso comune e magari anche il rumore di fondo di un essenzialismo mai morto. Il fatto, però, che, qualunque cosa ne pensi Wallerstein, le teorie cliniche e il metodo sono figli legittimi della metapsicologia freudiana, la quale giustifica i processi inconsci, l’intenzionalità inconscia, la fantasia inconscia, il transfert, le identificazioni, le proiezioni, le regressioni, le dissociazioni oggi tanto di moda e anche la triade interpretazione-insight-cambiamento. Il dubbio, dunque, è che la metapsicologia falsificata e dimenticata nel limbo, continui in incognito a giustificare le concezioni e le pratiche della moderna psicoanalisi che l’ha ha seppellita nell’oblio senza preoccuparsi del fatto di poggiare con i piedi e le scarpe su un pavimento che non ha voluto esplicitamente disconoscere per non doverlo sostituire. E’ la trappola cui facevo cenno, in cui sembra siano incorsi anche gli intersoggettivismi più avanzati. Da questo punto di vista si potrebbe, forse, dire che le moderne teorie, anche relazionali e intersoggettive, hanno fatto come Odisseo quando, accecato Polifemo, restò ostaggio dell’enorme masso, che occludeva l’ingresso della grotta. Odisseo trovò la dritta. Giunto il mattino, con i compagni, si abbarbicò al vello delle pecore immani del ciclope e, confuso nella lana del veicolo animale, sfuggì al tatto del gigante ferito, tornando, impunito alla nave.
Anche la moderna psicoanalisi prigioniera della caverna naturalista, impotente a sollevare il masso della teoria dei processi, disarmata d’ogni strumento, che non fosse la teoria clinico-tecnica, modellata nella metapsicologia, ha abbandonato la caverna, utilizzando le pecore di Polifemo. Spento l’occhio della pulsione alla teoria naturalista, si è aggrappata a un certo numero di concetti atti a veicolare esigenze soggettuali, interattive e persino intersoggettive. A fungere da “pecore di Polifemo” sono stati il transfert, il controtransfert, l’identificazione proiettiva, l’intenzionalità inconscia, la fantasia inconscia, l’enactment. In tal modo, gli analisti, come Odisseo, si sono aggrappati al vello delle pecore del ciclope per abbandonare, non visti, la caverna naturalista, in cui Freud era rimasto prigioniero. Odisseo, però, una volta fuori, lasciò gli ovini e corse alla nave; gli psicoanalisti, anche intersoggettivisti, trovano, invece, comodo restare abbarbicati a quella lana e sembra non intendano liberarsi delle… pecore, che, come è loro costume, tornano ogni sera all’ovile, riportando i fuggitivi ignari alla caverna naturalista cui credono ingenuamente di essere sfuggiti! Sono le trappole delle teorie!
TIRARE LA LINEA III: L’ALLORA, L’ADESSO, IL VINCOLO E LA TEORIA DELL’AZIONE.
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Ebbene, proprio come alla fine degli anni ’70, sembra necessario tirare la linea, per stabilire sul piano epistemologico, metodologico e concettuale le relazioni e le modalitàdi determinazione dell’ADESSO da parte dell’ALLORA.
Il racconto e l’interazione di ogni Sara avvengono nell’ADESSO della seduta e della vita, ma trovano valenza clinica in rapporto agli eventi e alle narrazioni dell’ALLORA. La teoria classica con la sua articolata architettura di congetture riguardanti la genesi, lo sviluppo, la struttura e il funzionamento dell’apparato, forniva:
a. la cornice e lo spazio logico in cui collocare e rendere intelligibili le narrazioni, le “azioni” e, sotto forma di transfert, anche le interazioni di Sara;
b. un set di regole di trasformazione per leggere le differenti modalitàdi determinazione del passato rispetto al presente;
c. una giustificazione del metodo perchéera la stessa architettura di congetture a giustificare la triade interpretazione-insight-cambiamento.
Non possiamo più contare su tale giustificazione perchéla mente èciò che fa il cervello e il cervello non funziona al modo in cui pretendeva l’apparato freudiano. Non si puònemmeno contare sui dati relativi all’efficacia, perchéil “verdetto di Dodo” avverte che le terapie funzionano, ma non per i motivi per cui pretendono di funzionare. Dunque l’efficacia non puògiustificare nessuna delle teorie che governano la pratica.
Al posto della robusta “continuitàpsichica” possiamo disporre soltanto di una più labile “continuitànarrativa” o “biografica”che, però, dal punto di vista psicoanalitico, èanche il luogo dell’auto-fraintendimento e dell’auto-inganno. Possiamo contare anche sulla piùsolida “continuità organismica”, che ci rassicura garantendo la natura essenzialmente storica di ogni organismo vivente, ma èdi scarsa utilitàsul piano operativo perché ben poco puòdirci riguardo al modo in cui l’“ADESSO” di Sara dipende dai suoi ’“ALLORA”. L’oggetto, il compito e lo scopo di una teoria generale è infatti questo: spiegare, tramite una rete di ipotesi suscettibili di controllo, il modo in cui avviene la determinazione dell’ “ADESSO” da parte dell’ “ALLORA.
Questo compito non puòessere demandato néalle neuroscienze, in una riedizione del riduzionismo ottocentesco, néa una pura ermeneutica dei significati (mentalismo) néa una ossessiva classificazione statistica delle conseguenze di ogni possibile evento come il comportamentismo cognitivista ha fatto diventare di moda e come il revival del concetto di trauma rischia di reintrodurre in psicoanalisi. Non alle neuroscienze, il cui oggetto éla spiegazione del comportamento in quanto determinato dalla struttura e funzionamento del substrato neurale. Esse hannno l’onere di spiegare la natura prima e il modo in cui essa, nella deriva evolutiva, ha imparato a supportare la natura seconda, ma non possono spiegare quest’ultima, che si pone come l’oggetto principe del mondo 3 (Popper). Quanto alla nozione di trauma ècerto che un evento puòdeterminare un ADESSO, ma nel senso che puòinfluire sull’organizzazione del sistema impattando con i processi e le regole di relazione e organizzazione di quel sistema, che appunto dovrebbero essere oggetto della teoria. Proprio questo è il compito specifico della psicologia, che studia il comportamento di un soggetto, che emerge dalla deriva evolutiva in una precisa situazione storica e culturale. Più specificamente èil compito della psicologia clinica, che dopo un secolo e piùdi psicoanalisi e di pratica clinica, possiede una massa non trascurabile di conoscenze, inferenze, generalizzazioni e concettualizzazioni, che pertengono, però, a orizzonti teorici discontinui, falsificati (teoria freudiana dell’apparato), pertinenti a territori teorici disparati o mediati da ambiti non coerenti tra loro come accade per i dati delle neuroscienze o per quelli dell’infant research e della tradizione bowlbiana e neo-bowlbiana.
Non so tirare la linea, ma negli anni impiegati a scivere “La mente del corpo” ho esplorato il territorio di una costruenda teoria soggettuale e intersoggettuale dell’azione del soggetto, individuando i punti chiave, che la conformazione del territorio candida a essenziali punti di orientamento per la sua costruzione, e conducendo una prima raccolta dei dati che possono fungere da indicatori del percorso. Da questo lavoro ho tratto la convinzione che, dopo 40 anni di traversata del deserto, la formulazione di una nuova teoria generale sarebbe impresa possibile, se non ci fosse una nutrita serie di ostacoli da superare.
Il primo e piùgrave ostacolo èla convinzione degli analisti che non ci sia necessitàalcuna di tale teoria, che il ventaglio di teorie di cui disponiamo sia ampio, ricco e adeguato. La seconda difficoltà, affine alla prima, èla consolidata convinzione che la seduta sia contemporaneamente il luogo della cura, della ricerca e della prova, che i dati della seduta siano dei veri “dati”e che, dunque, la teoria clinica sia autosufficiente, autofondata e persino empiricamente costruita e validata.
Questi ostacoli di tipo, direi, ideologico sono difficilmente superabili, ma, nel contempo, sembra essersi addolcito quello che fino a tempi assai recenti era lo scoglio più insormontabile. I rapaportiani fallirono nel loro tentativo di riformulazione a causa della nozione di fantasia inconscia, che sembrava indispensabile per la spiegazione dell’intenzionalità inconscia. Gill e Klein, che a quel concetto non sapevano rinunciare, si consegnarono alla Scilla mentalista, mentre Rubinstein, con la sua impostazione neometapsicologista e neurofisiologista, finì nelle braccia della Cariddi riduzionista. Oggi, per quanto non se ne parli, èancora così. Nel panorama della psicoanalisi degli ultimi decenni, infatti, le avanguardie intersoggettive e relazionali hanno raccolto la bandiera dell’alternativa psicologica, sollevata da Klein e Gill. A essi si contrappongono quanti, cercando un sostituto biologico sostenibile per la falsificata biologia freudiana, si raccolgono dietro la bandiera, che fu di Rubinstein, impugnata in modo esplicito dalla neuro-psicoanalisi e da quanti si affidano in modo diretto alle neuroscienze.
Alla radice del problema, c’era proprio l’assenza nell’armamentario concettuale di Freud della nozione di soggetto, che lo costringeva a risolvere il problema della continuità del vissuto in termini psicologici alti e, dunque, in termini di continuità psichica e in termini di desideri, fantasie, intenzioni inconsce. Questa necessità oltre che al mentalismo porta anche a un paradosso logico. Se per spiegare il comportamento di Maria introduco sotto qualche forma un’intenzione inconscia, sto introducendo “intelligenza” per riempire i buchi di non conoscenza a riguardo del processo reale, che genera il comportamento che sto spiegando. Questa intelligenza introdotta nella testa di Maria si rivela una proiezione, dell’intelligenza, che emerge in Maria come effetto dell’azione e del funzionamento della sua totalità, cioèdell’insieme dell’attività del suo sistema organismico-soggettuale. Se, nella costruzione della teoria e nella spiegazione del comportamento di Maria, tale effetto della totalità di Maria è considerato causa di uno specifico comportamento, si èimplicitamente provveduto a miniaturizzare la totalitàdi Maria e a collocare questa piccola Maria omuncolare tra i processi, che dovrebbero determinare proprio l’effetto che mi ripropongo di spiegare. In sintesi, si ètrasformato l’effetto in causa e la totalità – mentalizzata e omuncolarizzata – in un pezzo del processo.
La nozione di soggetto puòfarci scivolare indenni tra mentalismo e riduzionismo consentendo di riconoscere che la contrapposizione, per oltre mezzo secolo considerata insanabile tra biologia (pulsione) e relazione (soggettivitàe intersoggettività), rispecchia, una caratteristica essenziale dell’oggetto stesso di una psicologia clinica. Tale oggetto non puòessere, infatti, se non l’azione umana soggettiva e intersoggettiva, che, assunta nella sua complessità, esige la coniugazione, in un modello unitario, della natura prima e della seconda, della linearità e della circolarità, dei processi e dei significati.
La nozione di soggetto consente l’assunzione di un punto di vista organismico in grado di supportare una teoria dell’azione che, situata nella deriva evolutiva sia per quanto riguarda la selezione dei geni sia per quanto riguarda la selezione dei memi, puòconnettere l’analisi processuale dal basso con l’analisi della narrativa dall’alto. La prova del nove della praticabilitàdi questo approccio èdata dalla possibilità di impostare in modo nuovo il problema dell’intenzionalitàinconscia, superando lo scoglio della fantasia inconscia e il suo insuperabile rimando mentalistico. Non ho il tempo e lo spazio concettuale per descrivere il modo in cui questo ostacolo possa essere superato. Basteràosservare che tutti gli organismi dal paramecio allo scimpanzé, sono intenzionali e lo sono senza bisogno alcuno di formulare intenzioni. Homo appartiene alla classe degli organismi soggettuali e ne condivide le caratteristiche e le funzioni. Egli, grazie alla lingua, sa formulare e costruire simbolicamente intenzioni riflesse, esplicite e comunicabili, exattando, direbbe Gould, l’intenzionalitàpiù ampia dell’organismo. Il fatto peròche egli possa esprimere intenzioni consapevoli non implica che tutte le sue azioni presuppongano un’intenzione. Poggiando su quanto la ricerca neuro-psicologica ci ha consentito di apprendere sul sistema delle emozioni, sul suo ruolo nel processo di valutazione\attribuzione di significato, sulla sua continua attivitàdi scansione dei pattern percettivi in entrata e dei risultati dell’azione in uscita, è possibile pensare a una intenzionalità senza intenzioni. Si puòcioéipotizzare che la costante processazione in sequenze di valutazione-previsione, in ragione di un significato corporeo ed emozionale, costituisca il nostro meccanismo organismico-processuale di guida nella costruzione del mondo e del me nel mondo e la matrice da cui emergono le effettive intenzioni sia quelle dette e formulate in modo consapevole sia quelle non dette, che innervano silenziosamente il comportamento e le azioni. Questo elementare meccanismo è intenzionale nel senso che seleziona e sceglie in rapporto al risultato. Un osservatore esterno potrebbe anche descrivere l’azione conseguente in termini di intenzioni o di fantasie. Per esempio, la percezione di una certa contrazione dei muscoli facciali, che riattiva la memoria di uno stato del corpo sperimentato, può innescare un’aspettativa emozionale negativa e motivare inconsapevolmente un’azione di evitamento. Tutta la sequenza èfacilmente descrivibile con un enunciato del tipo “quando x allora y”, dunque con una teoria o fantasia, che tuttavia sarebbe propriamente effetto, non causa dell’azione del soggetto.
I dati e gli elementi che consentono di riformulare in termini processuali nériduzionisti némentalisti il problema dell’intenzionalitàinconscia permettono di sperare di porre rimedio anche alla perdita del piùsostanziale vantaggio della teoria classica, andato perduto nelle concezioni teoriche correnti. La maggior virtùdella teoria classica consisteva nel fatto che essa disponeva di una rete di concetti (carica, controcarica, fissazione, condensazione, spostamento, rimozione, regressione, isolamento…) sufficientemente bassi, neutri e lontani dal vissuto esperito, che le consentivano di congetturare i processi, in modo relativamente indipendente dai contenuti. Le teorizzazioni cliniche successive, per la caduta del modello pulsionale, hanno dovuto lasciare cadere i concetti processuali, ritrovandosi:
- a non possedere più dei concetti abbastanza bassi da un punto di vista gerarchico e abbastanza neutrali rispetto alla fenomenologia dei vissuti;
- a dover tuttavia mantenere concetti come identificazione, proiezione, regressione, transfert, fantasia inconscia, difesa, che dai concetti processuali traevano, però, la forza e la rilevanza;
- a dover conseguentemente privilegiare i contenuti scambiandoli spesso per processi come avviene in modo trasparente nel caso dell’identificazione proiettiva, nel revival delle spiegazioni traumatiche e, più in generale, nelle visioni teoriche fondate su gerarchie di bisogni o di motivazioni.
Torniamo a Sara. In seduta ciòche si passa èun flusso di narrazioni, interazioni e narrazioni di interazioni, verbalizzate o no. Tale flusso non èoggettivato da un osservatore terzo, neutrale - (fosse anche l’occhio di una telecamera!), - ma èinvece “soggettivizzato”dal flusso dei vissuti dei due attori che lo vivono dal loro “interno”. Conseguentemente ogni narrazione è una costruzione soggettiva nel narrante e nell’osservatore e ogni interazione èuna costruzione intersoggettiva dei due attori. Sia le costruzioni soggettive dei due narranti e osservatori sia le loro costruzioni intersoggettive avvengono nell’ADESSO. Dove sta l’ALLORA in tale adesso e in che modo modo l’ALLORA ha determinato l’ADESSO?
Sembra non possiamo piùaspettarci di trovare un ALLORA conservato immutato e immutabile, come la mummia di Ramses, in qualche angolino della mente o del cervello. Un tale ALLORA non puòessere néraggiunto nériesumato némodificato perché, in quanto fatto, non esiste più e, dunque, come amavano dire i Greci, “non lo possono cambiare neanche gli dei!”. L’ALLORA ènell’ADESSO, nelle conseguenze che determinano questo ADESSO e non un altro e, dunque, esiste e agisce nei vincoli e tramite i vincoli che determinano l’ADESSO. I vincoli fanno sì che Sara e il suo terapista non ripropongano ADESSO un vissuto soggettuale, una configurazione relazionale, dei significati, delle intenzioni, delle immagini, delle emozioni di ALLORA. Essi non costruiscono né soggettivamente né intersoggettivamente nessun ALLORA. Essi vivono ADESSO la configurazione relazionale, il significato, le intenzioni, le immagini, le emozioni di ADESSO, perché i vincoli costruiti nei rispettivi ALLORA consentono di vivere questo ADESSO e non un altro. In questo modo complesso l’ALLORA determina l’ADESSO. In modo altrettanto complesso l’ADESSO può anche modificare l’ALLORA, non entitativamente e direttamente, ma attraverso NUOVI ADESSO che possono relativizzare o sminuire la forza dei vincoli creati dall’ALLORA mediante nuovi vincoli creati dall’ADESSO.
Se l’ALLORA esiste nei vincoli che determinano l’ADESSO, si potrebbe formulare e formalizzare un concetto di vincolo a indicare un nesso stabile tra un elemento somatico-valoriale e un elemento simbolico-rappresentazionale. Tale nesso limita il ventaglio delle azioni possibili del soggetto o, persino, prescrive o inibisce una specifica azione.
Per “elemento somatico-valoriale” intendo un qualunque evento corporeo che, per il suo valore edonico positivo o negativo, può fungere da marcatura qualificante e, dunque, si tratta essenzialmente delle sensazioni della diade piacere-dolore e delle cosidette emozioni primarie (rabbia, paura, tristezza, gioia, sorpresa, disgusto,) da cui con lo sviluppo si specificheranno quelle secondarie (allegria, ansia, vergogna, gelosia, invidia, speranza, rimorso\senso di colpa, rassegnazione, perdono, offesa, delusione, disprezzo) sino ai sentimenti.
Per “elemento simbolico-rappresentazionale” intendo, invece, un elemento narrazionale che ha lasciato una memoria consapevole o inconsapevole e puòessere richiamata da uno stimolo. Lo stimolo può essere percettivo, (un oggetto, l’immagine (grafica, fotografica...) di un oggetto, un odore, un colore, il timbro di una voce, una parola o una frase detta, udita o letta, il tono di una voce.....), simbolico (il simbolo percepito di qualcosa che èstato antecedentemente percepito), onirico (un sogno, il ricordo di un sogno, il racconto di un sogno), pensato, immaginato. Puòessere semplice e diretto come in tutti i casi precedenti, o complesso e articolato (una scena, una situazione, un ambiente, un compito, un dovere, un ordine, un’aspettativa, un’attesa...). Puòessere qualcosa che sta avvenendo qui e ora, qualcosa che avverrà, qualcosa che forse accadrào che sicuramente accadrào che temo possa accadere. In ogni caso si tratta di un evento che interviene nel flusso dei vissuti e che, direttamente o indirettamente, ha o puòtrovare un antecedente nel vissuto pregresso.
Un vincolo sarebbe in sintesi uno schema fisso anticipatorio di emozione-azione, che in virtùdella marcatura emozionale, limita il ventaglio delle azioni possibili e anzi, spesso, prescrive una risposta o la inibisce, ponendosi anche come un attrattore sul piano logico, analogico o metaforico.
Un costrutto come questo si propone come una forma neutra, indipendente dal contenuto, ma capace tuttavia di esprimere qualunque contenuto, collocabile ai vari livelli della stratificazione del vissuto in senso sia temporale che funzionale e capace dunque di funzionare come mattone nelle costruzione di più complesse reti di vincoli. Da questo punto di vista il concetto di vincolo sembra in grado di unificare i territori che nella teoria tradizionale erano suddivisi tra i concetti di transfert, difesa e resistenza. Mi piace sottolineare che questo concetto, seppure in termini diversi, insiste sullo stesso tema su cui si affaticò Rapaport per oltre venti anni con il suo lavoro e con il continuo richiamo alla necessità di definire formazione, nutrimento e cambiamento delle strutture.
Prima di finire devo assolvere un compito. Il dott. Candido, raccomandandomi di salutarvi, mi ha pregato di dirvi di non badare troppo ai peli nell’uovo che il dottor Scano ama seminare e di rallegrarvi, invece, del fatto di possedere la migliore delle teorie possibili, che, dice, è cosa di grande aiuto nel lavoro clinico. Sara è una paziente e non mi ha consegnato messaggi, so però che, se avesse potuto, mi avrebbe chiesto di dirvi che il dottor Candido è certamente una splendida persona “voi però…ragazzi …bisogna vi diate da fare!”.